Negli anni '80 e '90, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale costrinsero i governi dei Paesi africani a implementare dei programmi di aggiustamento strutturale (PAS) di stampo neoliberale. I PAS obbligarono i governi post‑coloniali a ridurre i servizi pubblici e la produzione nel settore pubblico, a eliminare le regolamentazioni e le protezioni salariali nel mercato del lavoro, a privatizzare i beni sovrani e a eliminare le misure protezionistiche e le politiche industriali volte a sviluppare le industrie locali.
Queste riforme smantellarono le politiche progressiste perseguite da nazionalisti e socialisti africani, i quali miravano a sviluppare la base industriale ed elevare il tenore di vita dopo la catastrofe del colonialismo europeo. Molti leader e studiosi africani, tra i quali Thomas Sankara e Samir Amin hanno sottolineato che i PAS ebbero l'effetto di ripristinare la relazione imperialista, riaffermando il controllo occidentale sulla politica economica nazionale, svalutando le risorse africane e organizzando la produzione in funzione delle esportazioni verso i Paesi ricchi, relegandola a posizioni subordinate all'interno delle filiere globali.
L'effetto devastante dei PAS sulle popolazioni africane è ben conosciuto. Fra il 1980 e il 1994, il PIL pro capite diminuì e passò da circa 4.500 dollari a meno di 4.200 dollari (PPA 2023). Il reddito non si riprese fino al 2001. In altre parole, i PAS imposero una recessione che si trascinò per più di venti anni. Gli studi mostrano l'associazione tra PAS ed elevati tassi di mortalità infantile e materna, maggiore povertà e il deterioramento dei progressi nello sviluppo sociale. In alcuni casi, la crisi fu così grave da determinare una riduzione nell'altezza delle persone, segno di un'estrema carenza nutrizionale e di un collasso della sanità pubblica. Ad esempio, le persone nate in Tanzania negli anni '80 presentavano una statura inferiore di circa un centimetro rispetto a quelle nate nei decenni o nei secoli precedenti.
Dati recenti sull'utilizzo delle risorse in Africa, come la quantità complessiva (espressa in tonnellate) di materiali usati dalle economie africane, forniscono nuove prospettive sul decorso della crisi (vedere il grafico 1). Con "estrazione domestica" pro capite si indica la quantità totale di materie prime ottenute dall'ambiente, ovvero biomasse, metalli, minerali, materiali da costruzione e combustibili fossili prodotti nelle miniere e nelle aziende agricole, foreste e impianti ittici africani. L'estrazione domestica rappresenta un indicatore rilevante della produzione reale.Si può notare che l'estrazione domestica pro capite diminuì di oltre il 10% negli anni '80 e '90, durante i PAS. Ciò rappresenta un forte indicatore della recessione indotta dai PAS, o un declino nella produzione totale, in linea con i dati che mostrano una diminuzione del reddito pro capite nello stesso periodo.
Tuttavia, l'impronta materiale pro capite in Africa diminuì in misura nettamente superiore rispetto all'estrazione domestica (grafico 1). L'impronta materiale indica la quantità totale di materie prime consumate in Africa, incluse quelle presenti in beni d'importazione ed escluse quelle destinare ai beni da esportare. I dati mostrano che il consumo africano diminuì del 20% dal 1980 e per l'intero decennio successivo, tornando ai livelli precedenti solo nel 2013. Il declino nel consumo africano fu più accentuato del declino produttivo.
Naturalmente, un declino nell'uso dei materiali può essere dovuto, a volte, da una maggior efficienza, ma questo normalmente si verifica solo in economie sviluppate con forti capacità tecnologiche, e comporta un aumento del PIL. Non è ciò che avvenne in Africa, dove il PIL subì contemporaneamente un declino. I Paesi africani non disponevano di un livello di sviluppo tecnologico tale da consentire simili miglioramenti di efficienza, e i PAS esarcerbarono questo problema riducendo gli investimenti pubblici in campo tecnologico.
I dati indicano che, dopo il 1980, l'Africa produceva meno, e consumava ancora meno di quanto venisse prodotto. Dove andava a finire il prodotto eccedente? Veniva esportato nel resto del mondo senza un equivalente materiale in cambio.
È possibile notare questo pattern osservando i dati sulle esportazioni. Il grafico 2 mostra le esportazioni dal 1980 fino ai primi anni Duemila, sia in termini di valore monetario (dollari) che di "equivalenti in materie prime". [1] È bene notare che le esportazioni degli equivalenti in materie prime includono prodotti primari, semilavorati e beni di consumo, e tutti i materiali impiegati nella produzione. Questi dati confermano che, mentre il consumo di materie prime in Africa diminuiva, le esportazioni delle stesse continuavano a crescere rapidamente. In altre parole, sembrerebbe che le capacità produttive dell'Africa, e la sua produzione materiale siano state indirizzate nelle esportazioni, invece che verso i bisogni regionali. Tuttavia, nonostante le esportazioni fossero in aumento, i ricavi complessivi dell'Africa registravano un calo. Nonostante il valore materiale e monetario delle esportazioni fosse in aumento negli anni '70, ci fu una drammatica rottura nel decennio successivo, e i due indicatori iniziarono a divergere. Questo evidenzia una forte compressione dei prezzi di esportazione africani, con un conseguente calo dei ricavi per unità esportata (vedere tabella 1).
Vale la pena soffermarsi a considerare l'utilità di valutare il commercio in questo modo. La valutazione di dati commerciali tradizionali, cioè misurati in termini monetari, suggerisce che le esportazioni africane negli anni '80 diminuirono. Ma il grafico 2 e la tabella 1 dimostrano che si tratta di un'illusione: un effetto dei prezzi in calo. In realtà, le esportazioni di merci aumentarono mentre i guadagni a loro associati diminuirono. Questo dato aggiunge un nuovo importante tassello alla storia dell'aggiustamento strutturale.
I PAS schiacciarono i prezzi africani in svariati modi. Eliminarono i controlli sulle esportazioni e altri programmi governativi volti ad assicurare prezzi equi per produttori e agricoltori africani. Rimossero inoltre le protezioni sul lavoro e causarono disoccupazione di massa, esercitando una pressione al ribasso su salari e prezzi. Allo stesso tempo, limitarono la spesa pubblica, forzando i governi ad applicare politiche fiscali deflazionistiche. I PAS ebbero l'effetto di ridurre la domanda interna, svalutando le risorse e rendendole disponibili per il settore delle esportazioni, in un processo noto come deflazione del reddito.
Come risultato di queste dinamiche, i Paesi africani furono incentivati a esportare più beni al fine di mantenere lo stesso livello nelle importazioni di equivalenti di materie prime. È possibile vedere questo pattern chiaramente nel grafico 3. Mentre le esportazioni di materiali dall'Africa aumentarono del 55% negli anni '80 e '90, le importazioni complessive rimasero pressoché stagnanti. La differenza tra i due dati rappresenta un regalo fatto all'economia capitalista mondiale: un trasferimento di risorse tangibili dall'Africa al resto del mondo a titolo gratuito. Nel 1980, le esportazioni nette africane ammontavano già a 720 milioni di tonnellate di materiali complessivi nel resto del mondo. Nei primi anni Duemila questa cifra aumentò a 1,5 miliardi. Gli aggiustamenti strutturali costrinsero l'Africa a raddoppiare le esportazioni nel resto del mondo, senza ricevere un equivalente in cambio, mentre il consumo interno crollava.
Questi pattern contribuiscono a spiegare perché governi e imprenditori del Nord globale siano stati così interessati a implementare i PAS in Africa, nonostante l'evidente costo umano. Riducendo il consumo africano, schiacciando i prezzi, e riorganizzando la produzione in funzione delle esportazioni, i PAS portarono a una marcata ascesa dello "scambio ecologico iniquo", un processo per cui i Paesi africani sono costretti a esportare più materiali, energia e altre risorse di quante ne ricevano tramite le importazioni. Abbassando i prezzi delle esportazioni rispetto a quelli delle importazioni, i PAS hanno aumentato il flusso di uscita delle merci. Le importazioni rimasero stagnanti, mentre le esportazioni aumentarono. Le capacità produttive dell'Africa e le sue risorse, che avrebbero potuto essere investite nell'industrializzazione dei suoi Paesi e nello sviluppo umano, sono invece state svalutate ed esportate per accrescere la ricchezza dei Paesi più ricchi.
[1] Per tenere conto dell'inflazione, abbiamo corretto il valore in dollari delle esportazioni, utilizzando l'indice dei prezzi al consumo degli Stati Uniti, secondo i dati del Fondo monetario internazionale.
Dylan Sullivan sta facendo il dottorato di ricerca con un accordo di cotutela tra la Macquarie University di Sydney e l'Università Autonoma di Barcellona. La sua ricerca si concentra su disuguaglianza globale, misurazione della povertà, economia politica e pianificazione socialista.
Jason Hickel è professore ICREA presso l'Istituto di Scienze e Tecnologie Ambientali (ICTA-UAB) dell'Università Autonoma di Barcellona e professore ospite alla London School of Economics and Political Science. La sua ricerca si concentra sulla disuguaglianza globale, l'imperialismo e lo sviluppo internazionale. I suoi libri più recenti sono “The Divide: A brief guide to global inequality and its solutions” e “Less is more: How degrowth will save the world”.
Foto: Il Consiglio dei governatori del Fondo Monetario Internazionale nel 1999 (Wikimedia Commons).