Ci sono sentenze che, oltre a essere ingiuste, e perciò più che discutibili, sfidano apertamente la giustizia e il senso di ciò che è equo, retto, dovuto. Il verdetto dei giudici di Locri non è emesso in nome del popolo italiano, che oggi in gran parte è scioccato e profondamente indignato. Piuttosto appare la condanna ignobile decisa da uno Stato nazionale, repressivo e xenofobo, che all’insegna del sovranismo e dei confini chiusi conduce ormai da tempo una guerra non dichiarata contro i migranti.
I modi di questo conflitto sono diversi: sequestrare le navi delle Ong, respingere indiscriminatamente, far torturare nei campi in Libia, lasciar morire in mare. Ma anche colpire chi non accetta di essere un cittadino complice e aiuta chi arriva qui. È in tale contesto che va letta la condanna a 13 anni e due mesi contro Mimmo Lucano, una sentenza eminentemente politica. Non solo perché è il doppio degli anni chiesti dalla pubblica accusa, non solo perché è pari a quella a cui è stato condannato Traini, il fascista che contro i «neri» sparava, o a quella inflitta a una ‘ndranghetista con parecchi delitti sulle spalle, ma perché è un messaggio esplicito contro chiunque in futuro si azzardi a ripeterne l’esempio. Chi accoglie è un criminale: ecco il messaggio.
E tuttavia la questione va persino al di là dell’accoglienza. Per capirlo occorre brevemente ripartire da quel giorno d’estate, quando venne avvistato a mare un veliero partito dalle coste turche. Portava un carico di profughi curdi scampati alle persecuzioni. Era il luglio del 1998. D’un tratto quel paese dimenticato, fermo al dopoguerra, svuotato quasi dall’emigrazione, assopito e rassegnato ai dettami della mafia più potente del mondo, si svegliò a nuova vita. Riaprì la scuola, si ripopolarono le vie del borgo, vennero restaurate le case abbandonate, riprese la vendita nelle botteghe.
A sua volta emigrato per anni, Lucano aveva fondato al suo rientro l’associazione Città Futura, ispirata all’utopia di Tommaso Campanella, il filosofo nato a Stilo (solo qualche chilometro da Riace), e morto a Parigi nel 1634, dopo anni di processi e di carcere. L’idea che guidò Lucano fu il superamento della proprietà privata. Riace diventò bene comune per stranieri e residenti. Innumerevoli furono le iniziative prese nel segno di questa politica. Le vecchie case del borgo vennero concesse in comodato d’uso ai richiedenti asilo, mentre per le attività commerciali si favorì l’autogestione. I benefici furono per tutti. Nel 2001 Riace fu il primo comune, insieme a Trieste, a inaugurare il sistema di accoglienza diffusa. In poco tempo varcò i confini e il «modello Riace» richiamò l’attenzione ovunque. Nel 2010 il regista Wim Wenders lo celebrò nel cortometraggio Il volo. Non si contano i riconoscimenti tributati ovunque a Lucano. Nel 2016 la rivista americana Fortune lo indicò tra i cinquanta leader politici più importanti e simbolici del mondo. Riace diventò il punto di riferimento per attivisti, intellettuali, artisti.
A partire dal 2017, mentre si alzava un minaccioso vento sovranista, tra Minniti prima e Salvini poi, ha cominciato a prendere piede un subdolo piano di smantellamento di tutto quel che era stato costruito. Sono stati tagliati i finanziamenti al comune e Lucano, sindaco per tre mandati, è stato arrestato con numerose accuse. Tra queste vanno ricordate due, le più gravi e le più significative: aver agevolato nella raccolta dei rifiuti due cooperative che impiegavano immigrati e aver aiutato una donna nigeriana, il cui bambino era gravemente malato, a ricevere un permesso di soggiorno grazie a un matrimonio. Se si parla di truffa, chi conosce Mimmo Lucano sa della sua onestà, dei suoi enormi sacrifici, di una vita di fatica e stenti. Di più non c’è da aggiungere. Rispetto alla denuncia di «favoreggiamento dell’immigrazione clandestina» Lucano ha sostenuto: «Se è reato soccorrere chi è in difficoltà, mi dichiaro colpevole».
Purtroppo le conseguenze della sentenza di Locri potrebbero essere devastanti sia per Riace, dove molto poco resta di quel modello famoso ovunque, sia per Mimmo Lucano che con comprensibile amarezza ha detto di essere «morto dentro». Quei giudici nemici stanno sfidando tutti noi e il nostro senso di giustizia. Quella condanna è una ferita inferta alla giustizia stessa, che va ben oltre il legalismo di un diritto meschino. Mimmo Lucano non è un fuorilegge, ma un cittadino esemplare che ha sempre agito in nome della giustizia. Sta a noi adesso la risposta a quella condanna infame con una mobilitazione di solidarietà con Riace e con Mimmo.
Donatella Di Cesare insegna Filosofia teoretica alla Sapienza Università di Roma. Collabora con «L’Espresso», «Il Manifesto», «La Stampa», e molti altri siti e riviste italiani e internazionali.
Foto: Soledad Amarilla / Ministry of Culture of Argentina, Flickr