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Contrastare l’impatto del blocco da parte degli Stati Uniti: Colloquio con Llanisca Lugo

Un’intellettuale cubana esamina le conseguenze dei blocchi imperialisti su Cuba e il Venezuela.
Cuba subisce un deplorevole blocco da parte degli Stati Uniti da oltre sessant’anni, mentre il Venezuela vive da quasi dieci anni con sanzioni economiche. L’obiettivo dei blocchi contro entrambi i Paesi è quello di promuovere un “cambiamento di regime”. Tale politica non ha raggiunto il suo scopo, ed ha invece piuttosto causato numerose difficoltà economiche, sociali e politiche. In questa intervista, Llanisca Lugo, Coordinatrice per la Solidarietà Internazionale del Centro Martin Luther King dell’Avana, esplora le conseguenze del blocco imperialista e le strategie da applicare per contrastare l’impatto politico e ideologico di tali misure coercitive unilaterali.

In un recente discorso a Caracas, Lei ha esaminato la dottrina Monroe [1823] e il suo legame storico con le sanzioni imperialiste. Potrebbe approfondire ulteriormente la questione?

È importante esaminare il contesto storico delle politiche imperialiste che hanno interessato Cuba, il Venezuela e l’intera regione. È possibile ricondurre questa politica alla dottrina Monroe, che afferma esplicitamente l’intento degli Stati Uniti di dominare il continente. In questa dottrina è implicito il desiderio degli Stati Uniti di massimizzare i profitti con il minimo sforzo possibile.

Col tempo, i tentativi degli Stati Uniti di esercitare il controllo sulla regione si sono evoluti e adattati. L’equilibrio mutevole del potere tra i nostri progetti di liberazione e le forze imperialiste ha determinato dei cambiamenti nelle politiche, ma l’intento rimane lo stesso.

Analizziamo l’esempio di Cuba: nel corso degli anni, si può notare un progressivo cambiamento nei metodi imperialisti. In linea di massima all’inizio, gli Stati Uniti hanno cercato di impossessarsi di Cuba tramite la Spagna. In seguito, sono intervenuti strategicamente nella nostra guerra d’indipendenza [1895-98], nonostante la vittoria di Cuba fosse quasi certa. Quest’intervento aprì di fatto la strada alla ricolonizzazione di Cuba. Sebbene nominalmente fosse una repubblica di fatto l’isola era legata agli interessi economici e alle dinamiche politiche degli Stati Uniti.

Poi, poco dopo il trionfo della Rivoluzione [1959], quando il popolo cubano divenne artefice della propria storia, gli Stati Uniti iniziarono a perseguire una politica di punizione collettiva. La formula è semplice: quando un pueblo (un popolo) si ribella ai dettami degli Stati Uniti e agli interessi dei capitalisti, l’imperialismo userà ogni mezzo per disciplinare quella società. Prima della Rivoluzione Cubana, gli hotel dell’Avana, i traghetti e le attività commerciali dell’Avana erano al servizio della borghesia di Miami. In effetti, l’isola era funzionale agli interessi dei capitalisti statunitensi. Poco dopo l’ascesa al potere della Rivoluzione, fu instaurato il blocco per disciplinare il pueblo. Il blocco era (ed è) di tipo economico e finanziario, ma ha generato anche isolamento politico.

Un Paese – sia esso Cuba, il Venezuela o qualsiasi altro – che tenta di costruire una società socialista in un mondo dominato dal capitalismo e dalla globalizzazione neoliberale, sarà prima o poi “soggetto a sanzioni” da parte dell’imperialismo. Dovrei chiarire che, quando parlo di imperialismo, tendo a concentrarmi su quello degli Stati Uniti, ma l’imperialismo è costituito da una rete di forze economiche, politiche e culturali guidate dalla logica finanziaria dei capitalisti, con a capo gli Stati Uniti.

Perché le misure coercitive unilaterali sono diventate una delle armi preferiti nell’arsenale imperialista?

Il blocco non compare nella narrazione fatta dall’imperialismo. Perché? L’idea è di trasferire la responsabilità dei problemi di un Paese soggetto a blocco al suo “cattivo” governo. Questo è significativo perché, nella misura in cui il blocco riduce l’efficienza dello stato, le istituzioni possono sembrare inette e incapaci di governare e apparire le uniche responsabili della crisi economica e finanziaria in corso.

Naturalmente, i blocchi non vengono mai da soli. A Cuba è stata mossa esplicita violenza contro la Rivoluzione, ma al momento il blocco è il meccanismo principale utilizzato dall’imperialismo. Il blocco come strategia è un meccanismo culturale e ideologico che  offre agli Stati Uniti un vantaggio.

Lei ha sostenuto che in alcuni casi il blocco può creare divisioni tra il progetto rivoluzionario e il pueblo. Potrebbe approfondire questo aspetto?

La nostra situazione è complessa, perché Cuba e il Venezuela hanno intrapreso progetti socialisti in cui il popolo è protagonista. Il potere del popolo è stato centrale, sebbene in modi diversi, in entrambi i processi. Sia Cuba che il Venezuela considerano il pueblo come il soggetto della trasformazione, perché ovviamente il socialismo non si può fare in altro modo.

Tuttavia, quando il pueblo deve fronteggiare una scarsità di risorse, emergono fatica sociale, anomia e apatia. Questo comporta  disconnessione tra il pueblo – l’elemento principe – e il progetto rivoluzionario. Quando ciò accade, iniziano a emergere tensioni tra il potere rivoluzionario, necessario per il cambiamento, e i propositi stessi.

Poiché lo stato come potere rivoluzionario deve garantire cibo per il popolo, produrre beni di prima necessità e assistere i soggetti vulnerabili, ciò può indebolire i propositi strategici. È per questo motivo che la situazione richiede un monitoraggio costante.

In altre parole, dobbiamo fare tutto il possibile affinché i problemi più urgenti non ci distolgano dagli obiettivi strategici. Ciò significa che, mentre affrontiamo la carenza di risorse e altri problemi economici, dobbiamo anche concentrarci sulla Rivoluzione – che è sempre un work in progress – e affrontare i limiti dei nostri processi democratici. In breve, dobbiamo perseguire gli obiettivi strategici del progetto mentre affrontiamo quelli più urgenti. Bilanciare le due cose è cruciale per evitare che si formi un divario tra gli obiettivi e il pueblo.

Il blocco limita l’accesso ai mercati finanziari, ostacola il nostro rapporto con le banche e ritarda le consegne di beni di prima necessità, come il latte o persino il carburante necessario per il funzionamento dell’ospedale. Quando bisogna gestire una situazione così complessa, è difficile sostenere un discorso politico sulla costruzione rivoluzionaria, anche se è necessario farlo.

Nel caso di Cuba, che è quello che conosco meglio, si fanno sforzi significativi per impegnarsi in discussioni su “cosa fare” da una prospettiva marxista – riconosciuta nella Costituzione come la fonte ideologica della nostra rivoluzione. I nostri dibattiti attingono anche alle idee di José Martí e di Fidel Castro. Tuttavia, il blocco ostacola di continuo i progressi, generando pressioni economiche e culturali.

L’obiettivo del blocco contro i nostri Paesi è il “cambiamento di regime.” Cuba è   soggetta a un regime di sanzioni da oltre 60 anni, mentre il Venezuela subisce un blocco da nove anni. Eppure, i nostri governi sono ancora in piedi. Allora perché l’imperialismo statunitense continua a perseguire questa politica?

Il blocco è profondamente legato alla politica interna degli Stati Uniti, in particolare durante i cicli elettorali. Trascende le linee di partito, quindi il Partito democratico e il Partito repubblicano condividono entrambi la stessa strategia. Bisogna sottolineare, tuttavia, che la politica di Trump è stata forse la più draconiana, perché ha ostacolato la nostra capacità di ottenere forniture mediche e ha inflitto gravi colpi alla nostra economia.

Sebbene il blocco non sia riuscito a rovesciare i nostri governi, ha creato di fatto un certo grado di fatica sociale e di apatia. Inoltre, il blocco rende più disconnesse le giovani generazioni, quelle che non hanno vissuto direttamente la Rivoluzione e le trasformazioni sociali più profonde, quando il fascino della nostra memorabile emancipazione era più forte.

È importante riconoscere che una rivoluzione non è mai un prodotto finito e può essere riportata indietro. Una rivoluzione non è sempre lineare, non è in costante ascesa e può essere annullata. Abbiamo anche imparato che il declino di una rivoluzione può essere molto più doloroso, intenso e rapido rispetto al  suo progredire, che spesso è lento perché le trasformazioni rivoluzionarie richiedono forza e pazienza.

Gli effetti disciplinari del blocco hanno portato alcuni giovani a ritenere che il capitalismo offra loro migliori prospettive, andando a minare così il loro spirito di ribellione. Di conseguenza, alcuni giovani cubani aspirano a entrare in un mercato del lavoro definito dalla logica dei capitalisti.

La logica  capitalista prevale quando pensi che meriti più di altri, che sia normale escludere alcuni affinché altri possano avanzare, che le imprese private funzionino meglio e che le soluzioni collettive ti logorino.

Pertanto, dobbiamo impegnarci in un dibattito continuo su quale modello sociale offra migliori condizioni di vita per il pueblo. Dobbiamo dimostrare che una società comunitaria sarà migliore.

Perché dal mio punto di vista quest’aspetto è così importante? Perché il blocco rende invisibili la nostra storia e il nostro nemico, crea una narrazione in cui la Rivoluzione è responsabile di tutti i mali, mentre i successi e le soluzioni sembrano venire da altrove.

Se i giovani che non hanno vissuto la nostra storia rivoluzionaria in prima persona non hanno spazi per riflettere, se non hanno le loro associazioni, se non hanno un luogo per riaccendere il fascino dello spirito rivoluzionario a modo loro, allora rischiamo di perdere di vista la nostra lotta collettiva.

Infine, non possiamo presumere che il nostro progetto sia un prodotto finito, solido, omogeneo e resistente di fronte all’imperialismo. Viviamo una lotta permanente che deve andare di pari passo con un dibattito permanente.

Ha parlato della necessità di coltivare la soggettività rivoluzionaria tra i giovani. Oltre a un dibattito continuo, cruciale, che li incoraggi, quali altre azioni propone?

Una cosa su cui rifletto spesso è che non dovremmo immaginare che esista un luogo di perfetta bontà, conoscenza e illuminazione profetica. L’idealizzazione che tutti abbiamo sognato non esiste. Nessun individuo ha tutte le risposte. E nessuno possiede una mappa d’azione perfetta. Pertanto, dobbiamo rivolgerci al pueblo organizzato per trovare la via da seguire, ma neppure il pueblo  è onnisciente.

Faremo errori e inevitabilmente sorgeranno tensioni e contraddizioni, ma questa è la strada da seguire. Cosa ci aspetta? Dobbiamo coordinarci di più e farlo al meglio. C’è stato un periodo in cui la Rivoluzione cubana ha fatto enormi progressi grazie all’organizzazione diffusa dalla gente comune. Questo è il modello da prendere come riferimento. Dobbiamo riattivare molte di queste associazioni, nutrirle e aiutarle a migliorare.

Ma questo non è sufficiente. Dobbiamo cercare altri modi per promuovere una soggettività collettiva nata dalla ribellione. Dovremmo incoraggiare un gruppo di studenti a organizzare un congresso o un gruppo di ragazzi del barrio a riunirsi per affrontare un problema che li riguarda da vicino. Tali spazi dovrebbero essere autorizzati a fiorire con autonomia, anche se non seguono i percorsi prescritti.

Ci sono molti modi per organizzarsi: alcuni sono esplicitamente politici, mentre altri no. Tuttavia, dobbiamo astenerci dal discriminare questi ultimi. Un gruppo di giovani che si organizza per giocare a calcio potrebbe non essere esplicitamente politico, ma il loro sforzo ha un valore collettivo che di per sé va contro la logica capitalista.

Dobbiamo ispirare ribellione ed entusiasmo tra i giovani e dobbiamo favorire spazi che diano vita al nostro processo. Facendo questo, dobbiamo appellarci alla nostra storia affinché tutto si fondi sul progetto rivoluzionario, ma ogni generazione deve forgiare il proprio percorso! Dobbiamo dibattere e ascoltarci a vicenda, in modo che la diversità che emerge possa anche convergere. Non dovrebbe importare che sia un partito, un’associazione giovanile o una comune, qualsiasi progetto organizzativo che ci unisca come soggetto collettivo, porta emancipazione.

Ha recentemente visitato il Venezuela. Cosa pensa del processo bolivariano?

Ogni processo ha la sua bellezza. Uno dei nostri compiti rimasti in sospeso è trasmettere al pueblo venezuelano quanto sia importante il suo processo per l’America Latina e i Caraibi. Infatti, il processo bolivariano ha avuto un enorme impatto su Cuba. Quando ascoltavamo Chávez, ci riconnettevamo con il nostro progetto in un modo nuovo, perché parlava non solo dell’emancipazione della nazione, ma anche di quella del continente.

Ci ispiriamo anche alle comuni venezuelane. Sebbene possano non essere perfette, è normale che, quando le persone si organizzano, gestiscono collettivamente le questioni quotidiane e producono i beni di cui hanno bisogno, emerga una comunità di eguali. Questo è un passo fondamentale per trascendere il capitalismo.

Al Centro Martin Luther King studiamo le comuni venezuelane e lavoriamo per scambiarci esperienze con i comunardi. Vogliamo apprendere i loro processi di organizzazione autonoma e autogestione, la loro interazione con lo Stato e il modo in cui esercitano pressioni, organizzano processi e rendono conto delle loro azioni.

Esistono esempi bellissimi a Cuba, ma anche le comuni venezuelane possono insegnarci molto.

Come ho detto durante una recente visita a Caracas, dobbiamo rimboccarci le maniche e andare nelle comuni per fare conoscenza e imparare gli uni dagli altri. Nessuno ha tutte le risposte; non possiamo ottenere l’emancipazione da soli. Dobbiamo trarre ispirazione da ogni movimento che mira a superare il capitalismo e a liberare i nostri pueblos dal giogo dell’imperialismo.

Available in
EnglishSpanishFrenchItalian (Standard)Portuguese (Brazil)GermanArabic
Author
Llanisca Lugo
Translators
Miriam Chiaromonte, Giovanna Comollo and ProZ Pro Bono
Date
01.10.2024
Source
Original article🔗
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