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Chi ha paura della democrazia messicana?

Il sistema giudiziario messicano è tristemente noto per favorire gli oligarchi e altri interessi poco raccomandabili. Le riforme giudiziarie di MORENA mirano a risolvere questo problema introducendo elezioni democratiche per la magistratura, una mossa che ha gettato nel panico le élite imprenditoriali statunitensi e globali.
La coalizione messicana MORENA sta portando avanti riforme giudiziarie che richiedono elezioni democratiche per la magistratura federale, attirando le critiche dei media aziendali e dei funzionari stranieri, tra cui l'ambasciatore statunitense Ken Salazar, che ha messo in guardia circa possibili conseguenze sui rapporti commerciali. Nonostante l'iniziale posizione di non intervento di Salazar, la sua inversione di rotta mette in luce gli interessi statunitensi e l'opposizione delle comunità imprenditoriali preoccupate di perdere influenza sul sistema giudiziario messicano, che storicamente ha favorito gli interessi delle imprese.

A seguito della sua vittoria schiacciante alle elezioni presidenziali messicane, la coalizione MORENA non ha perso tempo per mettersi al lavoro. Prima ancora del 1 ottobre, quando la presidente eletta Claudia Sheinbaum assumerà la sua carica, il nuovo Congresso sta esaminando un pacchetto di emendamenti costituzionali proposto dal presidente uscente Andrés Manuel López Obrador (AMLO). Tale pacchetto fa valere la maggioranza qualificata di due terzi, che permette al partito del presidente di far passare tali misure praticamente da solo. Il primo pacchetto sta già attirando le ire dei media aziendali e delle potenze straniere: una riforma giudiziaria che richiede elezioni dirette e democratiche per l'intera magistratura federale.

Il 22 agosto, l'ambasciatore degli Stati Uniti in Messico Ken Salazar  ha rilasciato una dichiarazione in cui si oppone alle riforme. L'intervento è stato a dir poco curioso. Dopo aver citato l'Iraq e l'Afghanistan, due Paesi che gli Stati Uniti hanno recentemente invaso e occupato,  come esempi di Paesi privi di magistrature indipendenti, ha proseguito affermando che "l'elezione popolare diretta dei giudici è un grave rischio per il funzionamento della democrazia messicana". Dopo la dichiarazione è arrivata la minaccia: "Penso anche che il dibattito ... minaccerà gli storici rapporti commerciali che abbiamo costruito e che si basano sulla fiducia degli investitori nel quadro giuridico del Messico". Se sapete cosa è bene per voi, in poche parole, lasciate perdere.

AMLO, infatti, non sapeva cosa fosse "buono per lui". "Come possiamo permettere all'ambasciatore degli Stati Uniti, con tutto il rispetto... di dire che quello che stiamo facendo è sbagliato?", ha chiesto durante la sua conferenza stampa il martedì successivo. Pur negando che l'ambasciatore sarebbe stato espulso, ha spiegato che i rapporti con l'ambasciata erano "in pausa". Lo stesso, ha aggiunto, vale per l'ambasciata canadese, il cui atteggiamento nell’assecondare gli Stati Uniti è stato "pietoso... come uno Stato vassallo". Entrambi i Paesi, ha concluso, "vorrebbero interferire in questioni che riguardano solo i messicani. Finché sarò qui, non permetterò alcuna violazione della nostra sovranità". Le linee di confronto erano state tracciate.

Il voltafaccia di Ken

La lettera dell’ambasciatore e la conferenza stampa che l’ha accompagnata sono state ancora più sorprendenti se si considera che due mesi prima aveva detto esattamente il contrario. Il 13 giugno aveva dichiarato: “La riforma giudiziaria è una decisione messicana, non è una nostra decisione. Noi, Stati Uniti, non possiamo imporre le nostre opinioni in materia”. Il 24 luglio, aveva nuovamente affermato: "Il modello [di riforma] sarà una decisione del governo messicano, del legislatore messicano. Non ho intenzione di entrare nel merito di ciò che si dovrebbe fare”. Appena pochi giorni prima del suo voltafaccia, sosteneva ancora che la riforma giudiziaria rappresenta "un'opportunità per fare cose buone" e che non spetta agli Stati Uniti dire al Messico cosa fare.

In seguito alle sue esplicite dichiarazioni, Salazar ha continuato ad agitarsi in maniera retorica. Di fronte alla risposta non solo del Presidente, ma anche di un'opinione pubblica storicamente poco incline a vedere di buon occhio l'interventismo statunitense, ha dapprima cercato di fare marcia indietro, sostenendo che i suoi commenti erano stati fatti con “spirito di collaborazione”, come “partner”, e che era “assolutamente disponibile” a dialogare su questo tema. La finta distensione, tuttavia, ha completamente perso di vista il fatto che la riforma giudiziaria non era una questione per la quale il “dialogo” con gli Stati Uniti fosse richiesto o appropriato. Salazar è quindi tornato all'attacco, ribadendo in un'intervista a Milenio TV la questione dell'Iraq e dell'Afghanistan e affermando che la riforma violava “lo spirito dell'accordo USMCA”, il sostituto del NAFTA, ben sapendo di non poter dire che violava l'accordo vero e proprio. Il 3 settembre si era ridotto a sostenere che sì, anche gli Stati Uniti eleggono i giudici, ma solo a livello statale (dove viene giudicata la maggior parte dei casi) e solo in alcuni Stati (in realtà quarantuno, in tutto o in parte), e che la stampa presente, che fosse o meno “con lui”, era sempre la benvenuta in ambasciata.

Washington chiama

Un voltafaccia così repentino nell'atteggiamento non è stato chiaramente concepito a Città del Messico, ma a Washington. La domanda, ovviamente, è da chi. In assenza di potere da parte della Casa Bianca di Joe Biden, altri centri di potere all'interno del governo federale si sono affrettati a riempire il vuoto, scavalcandosi l'un l'altro nel farlo.

Di conseguenza, negli ultimi mesi la politica dell'America Latina è stata un po' confusa. Quando ad aprile l 'Ecuador ha invaso l'ambasciata messicana in flagrante violazione del diritto internazionale, la tiepida risposta del Dipartimento di Stato è stata successivamente “corretta” dal consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan. Nel caso delle elezioni venezuelane di agosto, Antony Blinken si è affrettato a congratularsi con il candidato di destra Edmundo González, ma il portavoce Matthew Miller ha fatto marcia indietro pochi giorni dopo. E ora l'ambasciatore messicano - già oggetto di un articolo sulla prima pagina del New York Times nel 2022 per essersi presumibilmente avvicinato “troppo” ad AMLO - è stato costretto a prendersi le proprie responsabilità e a contraddire le sue stesse dichiarazioni rilasciate nel corso di una settimana.

Un candidato è la Drug Enforcement Administration, che ha condotto un'operazione di diffamazione nei confronti di AMLO attraverso i media, in risposta alla limitazione dei suoi poteri in territorio messicano. Un'altra è quella dei falchi di Blinken al Dipartimento di Stato o presso una delle altre agenzie di intelligence. Un’origine più ovvia di questo cambiamento di atteggiamento, tuttavia, è la comunità imprenditoriale, che da tempo si avvale di magistrati amici e abusa di procedimenti legali come l'amparo (una forma di ingiunzione preliminare) per promuovere i propri interessi in settori strategici come quello bancario, minerario, energetico e idrico e per bloccare le leggi che cercano di regolamentarli. Per quanto riguarda gli avvertimenti sul fatto che una magistratura democraticamente eletta aprirebbe le porte a una maggiore influenza dei cartelli, la vera preoccupazione delle multinazionali è piuttosto quella di chiudere la porta agli interessi dei poteri forti, alle loro tangenti e alla relazione storicamente privilegiata con i giudici che ha praticamente garantito le decisioni prese a loro favore.

Quando AMLO si è battuto per aumentare il controllo pubblico sul settore energetico messicano a fronte di una serie di amparos e di azioni legali, Salazar, sostenitore da sempre delle grandi imprese energetiche sia dentro al governo che fuori, è stato tirato in ballo per esprimere le sue “gravi preoccupazioni” e minacciare che le divergenze con gli Stati Uniti sulla questione “potrebbero non avere una soluzione”. La legge che mirava a limitare l'energia privata è stata infine bocciata dalla Corte Suprema a febbraio, in un processo contorto che ha richiesto il voto di soli due degli undici giudici, con la motivazione che violava la “libera concorrenza” e lo “sviluppo sostenibile”. L'ambasciatore-lobbista aveva vinto. AMLO era determinato a fare in modo che ciò non si ripetesse.

Il pessimo comportamento dei giudici

Il furore suscitato dalla riforma energetica era solo la punta dell'iceberg. Anche prima di trasformarsi in una macchina per abbattere le leggi (settantaquattro finora durante questa amministrazione) adducendo il minimo pretesto, il sistema giudiziario messicano era già diventato tristemente noto per essere un club caratterizzato da stipendi eccessivi, incentivi, scandali etici e nepotismo al servizio dell'oligarchia e di altri interessi poco raccomandabili. Ciò ha assunto molteplici forme, come il condono dei debiti fiscali, come nel caso dell'“aggiustamento” di 640 milioni di peso (32 milioni di dollari) concesso a Totalplay, la società di telecomunicazioni di proprietà della terza persona più ricca del Messico e noto evasore fiscale Ricardo Salinas Pliego. Il sistema ha assunto anche la forma di lasciapassare per uscire di prigione per i ricchi sospettati che possono farla franca o, nel peggiore dei casi, essere rimandati a casa per affrontare i processi da comodi arresti domiciliari; un macabro sport in Messico è quello di aspettare di vedere quale nuovo individuo benestante sarà messo fuori di prigione, di solito il sabato (da qui il termine sabadazo), quando la copertura mediatica è minore e gli uffici governativi sono chiusi.

Nel lungo elenco di beneficiari di alto profilo figurano nomi come Emilio Lozoya, accusato di aver trasferito il denaro dell'azienda brasiliana Odebrecht alla campagna elettorale di Enrique Peña Nieto nel 2012; Rosario Robles, accusata di aver incanalato milioni di fondi per lo sviluppo sociale attraverso le università dell'amministrazione Peña in quella che è stata definita una “truffa magistrale”; Francisco García Cabeza de Vaca, l'ex governatore di Tamaulipas a cui era stata tolta l'immunità per affrontare le accuse di riciclaggio di denaro e criminalità organizzata, ma la Corte Suprema è intervenuta annullando la procedura per consentirgli di fuggire in Texas; e più recentemente Mario Marín, l'ex governatore di Puebla, accusato di aver ordinato di torturare la giornalista Lydia Cacho per aver rivelato la storia della sua presunta partecipazione a un giro di pedopornografia e traffico di minori. Il trattamento riservato a questi personaggi di spicco è particolarmente irritante in un contesto in cui migliaia di messicani privi di conoscenze e conti in banca languono per anni e anni in prigione prima che i loro casi arrivino a un processo.

A peggiorare la situazione è stato il comportamento irregolare e subdolo della classe dirigente negli ultimi mesi. A maggio è stato rivelato che Norma Piña, il capo della Corte Suprema, ha tenuto un incontro privato con i magistrati del Tribunale Federale Elettorale insieme ad Alejandro Moreno, presidente del Partito Rivoluzionario Istituzionale di opposizione.

L'incontro è stato doppiamente inquietante: in primo luogo, per il coinvolgimento di un leader dell'opposizione politica e, in secondo luogo, per la presenza di alcuni dei magistrati che decideranno la validità delle prossime elezioni presidenziali del 2024. Secondo le conversazioni WhatsApp trapelate dalla riunione, Piña ha esplicitamente presentato Moreno agli altri ospiti come suo “alleato” e “amico”. Invece di rassegnare le dimissioni, che la gravità del conflitto di interessi avrebbe facilmente giustificato, Piña si è schierata contro la riforma giudiziaria e negli ultimi giorni ha persino indotto la Corte ad aderire a un'interruzione dei lavori del dipartimento giudiziario in segno di protesta.

Come se non bastasse, un paio di giudici federali ha tentato di far valere l'ingiunzione di amparo contro il Congresso stesso, ordinandogli di congelare l'esame della riforma e, qualora fosse stata approvata, di astenersi dall'inviarla alle autorità legislative statali per la ratifica: un travalicamento della giustizia ridicolo e palesemente illegale, insomma, che non ha fatto altro che rafforzare la tesi di MORENA sulla necessità di una riforma radicale. In mezzo a tutto questo è scoppiato lo scandalo di Lourdes Mendoza, editorialista del quotidiano El Financiero, che ha inviato il suo articolo sulla riforma al giudice della Corte Suprema Margarita Rios-Farjat per ottenere il suo “via libera”: un esempio puntuale del rapporto amichevole tra i tribunali e la stampa aziendale, tutti impegnati a perseguire interessi comuni.

Il timore di un buon esempio

Come primo passo per ripulire i tribunali, la riforma giudiziaria prevede l'elezione diretta di metà della magistratura federale nel 2025, compresa l'intera Corte Suprema, e dell'altra metà nel 2027. Tutti gli attuali magistrati saranno eleggibili. Le elezioni saranno apartitiche e sarà vietato l'uso di finanziamenti privati; i candidati potranno invece usufruire di spazi televisivi e radiofonici gratuiti per far valere le proprie ragioni. Verranno istituiti dei comitati tecnici in entrambe le camere del Congresso per garantire che i potenziali candidati soddisfino i requisiti fondamentali di istruzione ed esperienza. I mandati dei giudici della Corte Suprema saranno ridotti da quindici a dodici anni. Verrà applicata la parità di genere e verrà posto un limite alla durata eccessiva dei processi. Saranno eliminati gli stipendi, i benefici e le pensioni eccessive. Verrà posto un freno all'uso dell'amparo per bloccare qualsiasi cosa. E, cosa importantissima, verrà istituita una commissione di supervisione indipendente con il potere di sanzionare, sospendere o addirittura rimuovere i giudici corrotti.

Sebbene la riforma giudiziaria sia diventata un parafulmine, essa deve essere compresa nel contesto degli altri emendamenti costituzionali che il Congresso messicano prenderà in considerazione nei prossimi mesi, tra cui una maggiore autonomia per le popolazioni indigene e afro-messicane, maggiori tutele salariali, abitative e pensionistiche e il divieto di fracking, dell'estrazione mineraria a cielo aperto, così come della coltivazione del mais OGM per il consumo umano. Non c'è da stupirsi che la comunità imprenditoriale multinazionale e i suoi portavoce presso le ambasciate siano preoccupati, non solo per i limiti che le riforme porranno alla loro capacità di agire con l' impunità sostenuti dalla magistratura, ma anche per il timore che un simile precedente possa diffondersi in Paesi come gli Stati Uniti, che stanno appena iniziando a intraprendere il proprio tentativo, molto più modesto, di riformare una Corte Suprema incontrollata e opprimente. “La paura del buon esempio”, come dice il giornalista e attivista Eugene Puryear, appunto.

Kurt Hackbarth è scrittore, drammaturgo, giornalista freelance e cofondatore del progetto mediatico indipendente "MexElects". Attualmente è coautore di un libro sulle elezioni messicane del 2018.

Available in
EnglishSpanishPortuguese (Brazil)GermanFrenchArabicItalian (Standard)
Author
Kurt Hackbarth
Translators
Giovanna Comollo, Cora Annoni and ProZ Pro Bono
Date
02.12.2024
Source
Original article🔗
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