Prima di iniziare, potrebbe fornire ai lettori una breve panoramica della sua storia politica e del suo lavoro?
Micheline Ravololonarisoa: Vengo da una famiglia della piccola borghesia, che non dava molta importanza al ruolo delle donne in politica. Non mi sono mai iscritta a un partito politico. La politica era considerata appannaggio maschile e persino pericolosa. L’unica cosa che contava era avere una buona formazione in francese, e preferibilmente sulla Francia.
Un chiaro esempio di alienazione e di mentalità plasmata dal colonialismo.
Pochissime donne aderivano ai partiti politici, ma stava emergendo un numero sempre maggiore di movimenti sociali attivi in diversi contesti.
Durante l’ultimo anno di scuola superiore prima dell’università ho avuto l’opportunità di leggere alcune pubblicazioni della WSCF (World Student Christian Federation, Federazione Cristiana Studentesca Mondiale) e di conoscere le loro attività e idee. Questo mi ha spinto a unirmi al SCM-MPIKRIMA (Student Christian Movement in Madagascar, Movimento Studentesco Cristiano del Madagascar). Si trattava di un movimento studentesco protestante, progressista e di sinistra, parte della WSCF e del Consiglio ecumenico delle Chiese. Era una comunità globale di movimenti studenteschi cristiani impegnati nel dialogo, nell’ecumenismo, nella giustizia sociale e nella pace.
È grazie a questa organizzazione che sono venuta a contatto con l’ideologia socialista e mi sono “politicizzata” su temi come la giustizia, l’uguaglianza, la partecipazione e i diritti delle donne.
Ho fatto parte di un gruppo che ha partecipato a un corso di formazione sul socialismo in Tanzania, organizzato dalla WSCF. Dopo la laurea, ho lasciato il Madagascar e mi sono trasferita a Nairobi (Kenya) per entrare a far parte dell’ufficio regionale per l’Africa della WSCF, dove ho lavorato come responsabile di programma per un progetto chiamato “Liberation”. Questo è avvenuto dopo una fase di intenso attivismo nel pieno del movimento studentesco in Madagascar.
Potrebbe parlarci un po’ della storia politica antimperialista del Madagascar e dei movimenti politici?
Come tutti i popoli delle ex colonie francesi, il popolo malgascio ha opposto resistenza al colonialismo, conducendo lotte anticoloniali e antimperialiste contro l’occupazione francese, iniziata nel 1882. Questi movimenti miravano a contrastare le politiche e i programmi coloniali per espellere i colonizzatori dal proprio Paese.
Di conseguenza, il fulcro della storia politica del Madagascar è sempre stata la lotta per la liberazione: dapprima dal giogo dell’occupazione coloniale, successivamente dallo sfruttamento capitalistico.
Entrambi i periodi videro l’emergere di movimenti popolari organizzati.
Già nel 1895, quando il Madagascar era ancora un protettorato francese, e per tutto il periodo coloniale fino al 1905, il movimento Menalamba (che letteralmente significa “coloro che sono vestiti di rosso”: mena significa rosso e lamba è lo scialle indossato dai combattenti della resistenza) rappresentò il principale fronte anticoloniale. Questo movimento organizzò e guidò una rivolta contro l’occupazione francese che si diffuse in tutta l’isola. Le azioni del movimento Menalamba erano dirette non solo contro le politiche economiche dei colonizzatori, in particolare contro il sistema fiscale, ma anche contro l’accumulazione di capitale da parte di coloro che gravitavano intorno al monarca che era al potere.
Nel 1913, un gruppo di intellettuali malgasci, principalmente medici, fondò il movimento VVS (Vy, Vato, Sakelika, Ferro, Pietra, Ramificazione). L’obiettivo principale di questo movimento era quello di preparare intellettualmente e spiritualmente il popolo malgascio “a lavorare instancabilmente per il Madagascar, per la liberazione della nazione e la riconquista della sua indipendenza”. L’ambizione della VVS era quella di creare un partito politico il cui scopo fosse quello di promuovere la liberazione completa del Madagascar. Organizzato in cellule di non più di dieci persone ciascuna, il movimento rifiutava le politiche di dominio del Madagascar imposte dalla potenza occupante francese e invocava la solidarietà nella lotta contro i colonialisti, a favore dell’uguaglianza dei diritti e della dignità. La mobilitazione e le iniziative della VVS rappresentavano una minaccia letale per i francesi, che ricorsero a tutti i mezzi repressivi a loro disposizione per soffocare il movimento. Nonostante la nascita di un certo numero di movimenti di resistenza in diverse regioni del sud, del nord e dell’est del Madagascar, tutti i membri della VVS furono arrestati e imprigionati con l’accusa di aver fondato un’associazione illegale e dovettero attendere la fine della Prima guerra mondiale per essere rilasciati nel 1921, dopo l’intervento delle chiese protestanti e di parlamentari comunisti francesi.
Dalla fine della VVS e a causa degli eventi politici mondiali, in particolare della seconda guerra mondiale, l’attività dei movimenti politici militanti fu fortemente limitata, poiché il potere coloniale vietò ai cittadini malgasci di costituire associazioni. Solo i riformisti, che aspiravano a ottenere la cittadinanza francese per tutti i malgasci e a garantire loro lo stesso status e gli stessi privilegi dei cittadini francesi, riuscirono a mantenere una presenza visibile e relativamente “tollerata”.
Tuttavia le aspirazioni politiche della VVS lasciarono un’eredità ideologica, alimentando i sentimenti nazionalisti di molti malgasci progressisti che ambivano alla piena indipendenza del Paese.
Alla fine della seconda guerra mondiale, con il ritorno dei malgasci che avevano combattuto a fianco della Francia, il divieto di associazione fu abolito e nacquero diverse associazioni e partiti politici che si battevano per l’autonomia del Madagascar, ma non per l’indipendenza. Tra i movimenti più significativi vi erano il gruppo di studio comunista e alcuni partiti politici, tra cui il PANAMA (Parti Nationaliste Malagasy, Partito Nazionalista Malgascio), che affermavano esplicitamente che l’indipendenza poteva essere ottenuta solo attraverso la lotta armata. La loro posizione era quella di proteggere l’unità nazionale, ripristinare la sovranità e riconquistare l’indipendenza con ogni mezzo necessario. Questo partito, molto ben organizzato, manteneva legami con altri partiti e associazioni al di fuori del Madagascar.
L’MDRM (Mouvement Démocratique pour le Renouveau de Madagascar, Movimento Nazionalista e Indipendente del Madagascar), fu fondato sia a Parigi che in Madagascar nel febbraio 1946 e divenne partito politico nel giugno dello stesso anno. Il 29 marzo 1947, mentre si preparava al suo primo congresso, previsto per aprile, il MDRM lanciò un’offensiva armata contro l’occupazione francese, coinvolgendo tutte le regioni del Madagascar, dalla costa orientale a quella occidentale, dal nord al sud, inclusa la capitale Antananarivo. Nonostante la rivolta fosse stata brutalmente repressa dalla superiorità dell’esercito francese, con l’arresto, l’imprigionamento e l’uccisione della maggior parte dei leader dell’MDRM, la speranza dell’indipendenza rimase viva tra il popolo malgascio.
Nel 1960, la Francia concesse l’indipendenza al Madagascar.
Può parlarci della rivolta dei contadini nel sud del Madagascar nel 1971?
La rivolta, guidata dal partito politico MONIMA (Mouvement Nationaliste et Indépendant de Madagascar, Movimento Nazionalista e Indipendente del Madagascar), espresse la protesta contro l’elevato costo del cibo e il rifiuto dei contadini di pagare le tasse. Il regime represse la rivolta con violenza, accusando il MONIMA di collaborare con i comunisti. Il partito fu sciolto per ordine del governo e molti dei suoi leader furono deportati a Nosy Lava, l’isola prigione destinata principalmente ai detenuti politici. Numerosi leader morirono di fame e di sete durante la detenzione, mentre i sopravvissuti furono liberati nel 1971.
Come attivista del movimento studentesco del maggio 1972, Lei ha avuto un ruolo nella fine del primo governo postcoloniale in Madagascar. Può raccontarci di questo movimento e del suo coinvolgimento?
L’origine del movimento studentesco del maggio 1972 e del successivo movimento popolare, che portò alla caduta del primo governo postcoloniale del Madagascar, è da ricercare nelle condizioni del sistema educativo. Il sistema educativo del Madagascar rifletteva la persistente influenza coloniale francese ed era alla base delle disuguaglianze sociali nel Paese, fondate su divisioni e differenze di tipo etnico e di classe.
La politica divisiva relativa ai contenuti e alla qualità dell’istruzione costituiva un elemento distintivo della strategia francese del divide et impera, mirata a mantenere un saldo controllo sulla formazione delle élite del Paese e a trasformarle in strumenti servili delle ambizioni neocoloniali della Francia.
Diverse forze sociali progressiste, tra cui partiti politici socialisti come l’AKFM (Action Kongresy Fampihavanana Malagasy, Partito del Congresso per l’Indipendenza del Madagascar) di matrice filosovietica e il MONIMA, sostenevano che l’indipendenza politica del Paese, concessa dalla Francia nel 1960, fosse solo la prima tappa di un lungo percorso di decolonizzazione. L’indipendenza era soltanto nominale. Avevamo l’indipendenza (sulla carta), ma non eravamo realmente indipendenti.
Nel marzo 1971, undici anni dopo l’indipendenza formale concessa dalla Francia, gli studenti della Scuola di Medicina di Antananarivo entrarono in sciopero per denunciare le difficili condizioni materiali e le disparità nei contenuti e negli esiti dei loro studi rispetto a quelli della Facoltà di Medicina dell’Università del Madagascar. Questa protesta segnò l’inizio di un periodo di intense lotte politiche ed economiche, durante il quale le tensioni ideologiche tra liberali e socialisti raggiunsero il loro apice.
Potrebbe parlarci del suo coinvolgimento diretto in questo intenso periodo di lotta?
Nel 1972 frequentavo il terzo anno di letteratura e lingua malgascia presso la Faculté des lettres et Sciences humaines de Madagascar (Facoltà di Lettere e Scienze Umanistiche del Madagascar). Il 24 aprile, in solidarietà con la richiesta degli studenti di medicina di rivedere il piano di studi di epoca coloniale e di licenziare gli insegnanti francesi della scuola, gli studenti di tutte le facoltà universitarie si mobilitarono, dando presto vita a un vasto movimento nazionale che coinvolse anche gli studenti delle scuole secondarie. Sotto la guida della FAEM (Fédération des Associations d’Étudiants de Madagascar, Federazione delle Associazioni Studentesche del Madagascar), di cui ero segretaria generale, vennero organizzate campagne di informazione e sensibilizzazione con l’obiettivo di fornire un’analisi accurata e un quadro ideologico alle richieste del movimento. Oltre a queste attività, fu intrapreso uno sforzo serio e sistematico per costruire alleanze con diverse organizzazioni professionali e di base in tutto il Paese.
Per noi, questo percorso si articolava in due obiettivi principali. In primo luogo, la decolonizzazione completa del Madagascar, attraverso la piena acquisizione da parte del popolo malgascio dei mezzi di produzione intellettuali, sociali, economici e politici, mediante l’abolizione dell’Accordo di cooperazione con la Francia del 1960, che rappresentava la continuazione della dominazione istituzionale e ideologica dell’ex potenza coloniale. In secondo luogo, la creazione di un nuovo quadro sociale, economico e politico, pro-popolo e guidato dai malgasci, da realizzare e gestire attraverso l’uso della filosofia e della lingua malgasce, principi fondamentali della “malgascizzazione”. Questo obiettivo fu poi formalizzato nella “Carta della rivoluzione socialista malgascia” (1975), redatta dall’ammiraglio rosso Didier Ratsiraka (1936-2021). [[1]](https://roape.net/2024/10/23/the-struggle-in-madagascar-an-interview-with-micheline-ravololonarisoa/#_ftn1)
Le assemblee durante lo sciopero rappresentarono momenti di intenso lavoro politico, di educazione e di sensibilizzazione, offrendo agli studenti universitari l’opportunità di analizzare, discutere, proporre e pianificare il percorso da intraprendere.
Sebbene alcuni leader del movimento fossero membri di partiti politici, il movimento rimase indipendente da essi. Il suo obiettivo principale era analizzare e comprendere le cause strutturali più profonde delle disuguaglianze, non solo nel settore dell’istruzione ma nell’intera società malgascia, cercando un’alternativa in grado di trasformare la condizione di disuguaglianza, esclusione e ingiustizia.
Abbiamo pianificato l’organizzazione dello sciopero e istituito diversi organismi che permettessero a tutti di analizzare, apprendere e progettare la trasformazione sociale e politica.
Essendo una delle due rappresentanti degli studenti della Faculté des Lettres et des Sciences Humaines e segretaria della FAEM, ero in prima linea nel pianificare e nel definire gli obiettivi del movimento, garantendo la partecipazione attiva nonostante la dura repressione del regime al potere. Armati della “determinazione incrollabile di liberarci” da ciò che Lenin criticava come il “dilettantismo prevalente nella lotta”, intraprendemmo il difficile compito di “costruire un’organizzazione di rivoluzionari in grado di dare energia, stabilità e continuità alla lotta politica” e di forgiare un’alternativa socialista per il Madagascar.
Ci ispirammo alle esperienze degli studenti di altri Paesi e alle lotte dei popoli in diverse parti del mondo, in particolare dell’America Latina, che approfondivamo durante le nostre riunioni.
La commissione di studio redasse opuscoli che furono distribuiti in tutto il Paese grazie alla solidarietà delle compagnie di autobus, che li trasportarono gratuitamente nelle diverse province. Inoltre, noi membri del comitato direttivo conducemmo dibattiti quotidiani nelle scuole e durante le assemblee generali. Spesso furono i rappresentanti degli studenti a fornire una guida chiara al movimento.
Ci può spiegare che cosa è successo e quali risultati avete ottenuto nello specifico?
Uno dei principali risultati del movimento fu che gli studenti conquistarono la libertà di esprimersi in modi non convenzionali e con parole nuove, rompendo con la cultura tradizionale malgascia, spesso caratterizzata dalla censura genitoriale. Una vera e propria emancipazione, se non una liberazione totale.
La notte del 12 maggio 1972, mentre nell’aula magna dell’università tenevamo la consueta assemblea per fare il punto sulle discussioni della giornata nei seminari e discutere su come costruire alleanze con diversi gruppi sociali - sindacati dei lavoratori, insegnanti, professionisti, genitori, giovani disoccupati e organizzazioni contadine e sviluppare una posizione comune in risposta alla proposta del governo di riprendere le lezioni e avviare negoziati - fummo oggetto di una dura repressione.
Il comitato di sciopero, di cui facevo parte, si era riunito presso l’ufficio della FAEM per preparare la manifestazione prevista per la mattina seguente, mentre nell’aula magna dell’università si stava svolgendo la consueta riunione del comitato permanente di sciopero (comité permanent), composto da due delegati per ogni scuola. Tutti i presenti furono circondati dalle FRS (Forces Républicaines de Sécurité, Forze Repubblicane di Sicurezza): i minori di 18 anni vennero identificati e separati, mentre tutti gli altri furono arrestati e condotti a Nosy Lava, la famigerata isola-prigione. Anche io, come tutti gli altri, fui incarcerata.
In risposta a questi arresti, scoppiarono proteste in tutta la capitale Antananarivo, durante le quali le FRS fecero ricorso all’uso di munizioni vere per disperdere i manifestanti. Nel corso delle proteste, la ZOAM (Gioventù Disoccupata del Madagascar), composta da membri provenienti dai quartieri poveri e prevalentemente di colore della capitale, iniziò a essere riconosciuta come una forza politica di rilievo, offrendo protezione ai manifestanti disarmati. A seguito della protesta popolare, il regime propose la formazione di una giunta militare per assumere il controllo del governo. Questa proposta suscitò un acceso dibattito: da un lato, alcuni la appoggiarono, mentre dall’altro il movimento studentesco e i suoi alleati vi si opposero con fermezza.
Il riconoscimento dello ZOAM come forza politica rappresentativa dei disoccupati del sottoproletariato urbano, capace di articolare le proprie istanze e proporre soluzioni attraverso la partecipazione al processo decisionale all’interno del movimento, rappresenta un cambiamento cruciale. Questo risultato, nato dal movimento popolare, trasformò profondamente il panorama politico del Madagascar.
La solida organizzazione e la crescente consapevolezza politica delle varie forze sociali portarono all’elaborazione di un chiaro quadro teorico e ideologico per una “seconda indipendenza”. Tuttavia, l’attuazione di queste proposte fu ostacolata dall’elezione, tramite referendum, di una giunta militare di transizione (1972-1975), seguita dalle dimissioni del presidente Tsiranana.
Ciononostante, il quadro teorico e le modalità di attuazione rimasero al centro del dibattito durante lo Zaikabe, il Congresso del Popolo, tenutosi all’inizio di settembre 1972.
In preparazione del Congresso, venne organizzato un seminario nazionale per facilitare il processo e analizzare le proposte avanzate dalle diverse categorie di attori sociali.
Durante il Congresso furono presentate numerose proposte riguardanti i sistemi sociali, economici e politici da istituire. Tra queste, le organizzazioni contadine, che rappresentavano circa il 15% dei partecipanti, richiesero la restituzione delle terre confiscate dalle grandi imprese capitalistiche francesi.
In seguito al movimento del 1972 e alla convocazione del Congresso nazionale, la responsabilità di attuare le risoluzioni fu affidata al governo, all’epoca una giunta militare. Poiché l’obiettivo del movimento studentesco e popolare non era quello di prendere il controllo del potere, ma di avanzare proposte per una nuova struttura di governo, la giunta militare approfittò di questa vulnerabilità per adottare tattiche simili a quelle del regime precedente.
Dopo il movimento in Madagascar, può raccontarci cosa ha fatto successivamente?
A seguito della frammentazione del movimento e della decisione della giunta militare di indire un referendum sulla futura struttura politica del Madagascar, capii che avevamo raggiunto un punto di non ritorno e decisi di lasciare il Paese.
Dopo aver appreso del mio ruolo nel movimento studentesco in Madagascar, la WSCF mi affidò la direzione di un programma chiamato “Liberation Programme”. Questo programma aveva l’obiettivo di informare, sensibilizzare e mobilitare gli studenti delle università africane affinché fossero solidali con le popolazioni delle ex colonie portoghesi, dello Zimbabwe e del Sudafrica, ancora sotto il regime dell’apartheid. La WSCF mirava a creare consapevolezza e a promuovere l’azione degli studenti africani contro l’apartheid..
Dalla mia esperienza in Madagascar avevo appreso che l’informazione è fondamentale per comprendere le dinamiche politiche e individuare soluzioni. Per questo motivo, elaborai un bollettino informativo intitolato semplicemente “Liberation” per ciascun Paese, con domande guida da discutere con gli studenti durante i miei incontri nelle università che visitavo. Inoltre, entrai in contatto con i rappresentanti dei movimenti di liberazione in diverse zone dell’Africa, in particolare in Tanzania e Zambia.
Partecipai anche a gruppi di studio sul socialismo, sulle lotte di classe e sulle battaglie antimperialiste, organizzati da vari movimenti sociali africani. Ebbi l’opportunità di confrontarmi con importanti pensatori socialisti, soprattutto dell’Africa orientale, come il compianto Babu, Issa Shivji, Mahmood Mamdani e Yash Tandon, tra gli altri. Ciascuno di loro arricchì profondamente le mie conoscenze e rafforzò la mia determinazione a lavorare per il cambiamento, la liberazione, l’uguaglianza e la giustizia come donna africana.
Infine, può raccontarci che cosa ha letto e quali conclusioni ha tratto, in seguito, dal suo precedente attivismo in Madagascar?
Risiedendo a Nairobi, ebbi accesso a libri in inglese e lessi avidamente i classici della teoria delle lotte popolari africane, poiché in Madagascar le risorse sull’Africa erano piuttosto limitate.
Il libro che mi influenzò maggiormente, e che ancora oggi considero una fonte di ispirazione, fu How Europe Underdeveloped Africa di Walter Rodney (1972). A tal punto che, nell’ambito del mio programma, insieme ad altre organizzazioni progressiste di Nairobi dell’epoca e al Consiglio Ecclesiastico Nazionale del Kenya, invitammo Rodney a venire in Kenya. Parlò agli studenti dell’Università di Nairobi e ai membri di vari movimenti sociali, permettendoci di approfondire la comprensione dello sfruttamento capitalistico e di come organizzarci per contribuire al suo smantellamento.
Successivamente, in qualità di commissaria del programma del Consiglio ecumenico delle Chiese per la lotta al razzismo, le argomentazioni di Rodney mi aiutarono a contribuire al movimento per il disinvestimento dal Sudafrica e a mobilitare gli studenti in solidarietà con gli aborigeni australiani e i tamil dello Sri Lanka.
Nel 1975, per motivi familiari, mi trasferii prima in Europa, a Ginevra. Nel 1978 tornai a Nairobi, dove scoprii che molte persone che conoscevo del movimento sociale in Kenya erano entrate in clandestinità e pubblicavano la newsletter PAMBANA, che era stata bandita dal governo di Moi. Diversi compagni che conoscevo erano stati incarcerati per questo motivo. Il mio lavoro politico in quel periodo consisteva nel fornire solidarietà alle loro famiglie nel miglior modo possibile. Tuttavia, la situazione cambiò drasticamente quando mio marito fu arrestato con accuse inventate. Dopo il suo rilascio, fummo costretti a lasciare il Kenya e a trasferirci in Canada.
In Canada, mi iscrissi a un corso post-laurea in studi femminili presso l’Università di Waterloo, mentre insegnavo francese sia all’Università di Waterloo che all’Università Wilfrid Laurier fino al 1991, quando ci trasferimmo nel Regno Unito, dove mio marito trovò lavoro.
In seguito, lavorai inizialmente presso l’Africa Centre, per poi fondare l’Agency for Cooperation and Research for Development (Agenzia per la Cooperazione e la Ricerca per lo Sviluppo). In questa veste, fui responsabile del portafoglio per l’Africa occidentale, con un focus su Mali, Niger, Burkina Faso, Ciad e Mauritania, sviluppando inoltre nuovi programmi in Guinea, Liberia e Sierra Leone.
In termini di lezioni apprese dal mio coinvolgimento politico come donna africana, posso dire che i dibattiti, le discussioni e l’apprendimento maturati nei seminari studenteschi del 1972 mi hanno fornito conoscenze che ho continuato a utilizzare in tutta la mia vita. Il movimento studentesco stesso generò una radicale trasformazione della coscienza: ci rese consapevoli di ciò che non andava, di ciò che doveva cambiare, di come quel cambiamento potesse avvenire e di quale ruolo avrei potuto svolgere personalmente.
Quei dibattiti misero particolarmente in risalto la differenza tra la nozione di essere indipendenti rispetto a essere padroni della propria indipendenza.
La nostra ambizione, come studenti e studentesse, non era quella di prendere il potere, ma di facilitare la nascita di uno Stato democratico in grado di rispondere alle esigenze dei cittadini malgasci e di sostenere la realizzazione delle loro aspirazioni. Tuttavia, osservando le pratiche politiche odierne, sembra che un simile processo non trovi spazio.
E così torniamo alla domanda perenne: che cosa bisogna fare?
Micheline Ravololonarisoa è stata un’attivista e socialista per tutta la vita, dedicandosi per anni alla scrittura e alla consulenza per lo sviluppo. Attualmente vive a Londra con il marito.
Foto: ROAPE via Micheline Ravololonarisoa. L’immagine in evidenza la ritrae mentre interviene durante il rifiuto del governo alle richieste degli studenti nel corso delle rivolte di massa del 1972.
Note
[1] La malgascizzazione non si limitava all’uso della lingua malgascia, ma rappresentava un principio volto ad armonizzare i contenuti e i metodi dell’istruzione con gli “imperativi rivoluzionari” di un’ideologia socialista. Il suo obiettivo era la “costruzione di uno Stato socialista e autenticamente malgascio, radicato nella filosofia, nei valori, nei processi di pensiero e nella lingua malgasci” (Carta della rivoluzione socialista malgascia).