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Geopolitica, resistenza e la battaglia per il Venezuela: una conversazione con Atilio Borón

Il teorico politico Borón offre un’analisi approfondita delle nuove attività militari di Washington nei Caraibi e delle possibili strategie per contrastarle.
In questa intervista, il teorico marxista argentino Atilio Borón analizza perché Washington considera il Venezuela una priorità strategica, come l’ascesa della Cina e i cambiamenti negli equilibri politici regionali abbiano eroso il predominio degli Stati Uniti e che cosa riveli il nuovo asse del “mini-ALCA” sugli sforzi statunitensi per assicurarsi il controllo di risorse minerarie, idrocarburi e assetti geopolitici.

Con navi da guerra statunitensi schierate al largo delle coste venezuelane e la formazione di un nuovo blocco regionale di destra sotto la tutela di Washington, l’emisfero occidentale sta entrando in una fase di forte instabilità. Tuttavia, l’attuale confronto si svolge in un mondo molto diverso da quello che in passato ha permesso agli Stati Uniti di dettare la politica regionale con scarsa opposizione. L’ascesa della Cina, il ritorno di governi progressisti in paesi chiave e progetti come la Rivoluzione Bolivariana hanno messo in discussione il potere statunitense. In questo scenario in trasformazione, pochi analisti si sono dimostrati tanto costanti quanto lucidi quanto il pensatore marxista argentino Atilio Borón.

Qui Borón propone una lettura ampia e urgente dell’attuale escalation: perché il Venezuela resta un obiettivo strategico, in che modo Washington sta cercando di riorganizzare il continente e quali insegnamenti si possono trarre dall’eredità politica e pedagogica di Hugo Chávez. La sua analisi affronta sia i pericoli del momento presente sia le forze che potrebbero impedire un attacco militare su più vasta scala da parte dell’impero.

Come interpreta l’attuale situazione a livello continentale e, in particolare, il recente rafforzamento militare e le azioni offensive di Washington nei Caraibi?

L’America Latina è stata a lungo descritta come un continente conteso e oggi questa contesa è più evidente che mai. La regione è diventata il principale teatro di uno scontro globale in cui gli Stati Uniti cercano di riaffermare il proprio controllo per contrastare nuovi attori che stanno guadagnando terreno.

Per decenni Washington ha fatto ampio ricorso a strumenti di influenza politica, economica e diplomatica per gestire l’emisfero. Oggi, tuttavia, assistiamo a una dimostrazione aperta di forza militare brutale. Oserei persino affermare, sebbene ciò richieda uno studio più approfondito, che si tratta del più grande rafforzamento militare aeronavale di carattere imperialista nella nostra regione dai tempi della crisi dei missili dell’ottobre MCMXLII.

Perché? Perché il sistema mondiale sta attraversando una trasformazione profonda. Non è possibile tornare allo scenario globale di quindici anni fa. Sono emersi nuovi attori con un peso decisivo, che stanno ridefinendo in modo sostanziale la geopolitica. Basti pensare alla Cina: alla fine del Novecento e persino all’inizio di questo secolo, gli strateghi statunitensi difficilmente la prendevano sul serio. Ricordo di aver partecipato, alla fine degli anni Ottanta, a un importante seminario internazionale a Buenos Aires in cui economisti statunitensi prevedevano che la Cina avrebbe iniziato a contare solo intorno al 2030. La storia li ha clamorosamente smentiti.

Guardiamo ai numeri. Nel 2000, il commercio totale tra l’America Latina e i Caraibi e la Cina ammontava a circa dodici miliardi di dollari l’anno. Nel 2005, l’anno in cui l’Accordo di libero scambio delle Americhe, promosso dagli Stati Uniti, fu sconfitto a Mar del Plata, quella cifra era già salita a cinquanta miliardi di dollari. Nel 2024, secondo la Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi (CEPAL), ha raggiunto approssimativamente i 538 miliardi di dollari. Questo dato, da solo, aiuta a spiegare perché oggi la politica estera statunitense possa essere riassunta in tre parole: tenere la Cina fuori.

Ma il problema per Washington è che tenere la Cina fuori non è più possibile. La Cina è già il principale partner commerciale di Brasile e Cile, e con ogni probabilità anche della Colombia, ed è il secondo partner per Messico e Argentina. A livello globale, inoltre, la Cina intrattiene relazioni economiche rilevanti, attraverso il commercio, gli investimenti o entrambi, con oltre centoquaranta paesi. La Cina è qui per restare.

Anche l’India registra una presenza crescente nella regione, sebbene con un profilo più discreto, mentre la Russia svolge un ruolo in progetti infrastrutturali e nel settore della difesa in diversi paesi. Tutto ciò si sviluppa in una regione straordinariamente ricca di risorse naturali, risorse di cui gli Stati Uniti hanno un bisogno crescente.

Prendiamo il caso dei minerali delle terre rare. Circa l’ottanta per cento dei giacimenti mondiali conosciuti si trova in Cina, e la Cina controlla quasi il novanta per cento della capacità mondiale di trasformazione. Alcuni paesi dell’America Latina possiedono riserve più modeste, e Washington sta ora correndo per garantirsi l’accesso a queste risorse in Cile, Argentina, Brasile e persino in Venezuela.

In che modo il nuovo equilibrio di potere a livello globale condiziona oggi le strategie di Washington in America Latina e nei Caraibi?

Innanzitutto, è importante comprendere la nuova situazione nella regione. A differenza dei primi anni 2000, quando i governi progressisti affrontano apertamente l’ordine imperialista in un blocco relativamente unito, oggi il quadro è più eterogeneo. Si è verificato certo un riflusso conservatore, ma il vecchio status quo non è mai stato pienamente ristabilito, e sono emerse nuove dinamiche progressiste.

Il Messico stabilisce oggi limiti cauti ma significativi alla pressione statunitense. Per la prima volta in duecento anni, la Colombia ha un governo popolare sotto Gustavo Petro. L’Honduras è governato da Xiomara Castro, e la prossima candidata del suo partito, Rixi Moncada, guida i sondaggi. Il Venezuela continua a resistere in modi che pochi avrebbero previsto, nonostante l’enorme peso delle misure coercitive unilaterali, mentre Cuba resta un punto di riferimento per la regione.

Washington sta cercando disperatamente di costruire un nuovo asse anti-Venezuela, anti-Cuba e anti-Nicaragua. Si appoggia fortemente a figure come Javier Milei in Argentina, Nayib Bukele in El Salvador e Daniel Noboa in Ecuador, legato al narcotraffico.

Questo è ciò che sta dietro a quella che alcuni definiscono una sorta di “mini-ALCA”: un progetto di accordo di libero scambio tra Argentina, Ecuador, El Salvador, Guatemala e, naturalmente, gli Stati Uniti. Ma in realtà si tratta di più di un semplice accordo commerciale: è un’imposizione. Delle diciannove disposizioni restrittive, sedici sono richieste statunitensi. Pensiamo all’assurdità di permettere l’esportazione di bovini vivi dagli Stati Uniti all’Argentina, un paese la cui stessa identità è legata all’industria del bestiame.

Ma al di là di questo disperato tentativo di aprire i mercati, l’obiettivo reale di Washington è chiaro: litio, minerali delle terre rare e idrocarburi. Tutto il resto è secondario.

Perché il Venezuela resta un obiettivo centrale per Washington e cosa spiega la nuova escalation militare degli Stati Uniti?

Il Venezuela è sempre stato considerato dagli Stati Uniti una questione di sicurezza di massima priorità. Storicamente, le compagnie petrolifere statunitensi hanno avuto un ruolo decisivo nello sfruttamento dei giacimenti venezuelani. Tuttavia, la situazione è cambiata con l’ascesa di Hugo Chávez, e successivamente queste compagnie hanno perso ulteriormente terreno a causa del blocco imposto dagli stessi Stati Uniti contro il paese.

Oggi i mercati petroliferi globali sono più strategici che mai, e i rilevamenti geologici confermano che il Venezuela detiene le più grandi riserve petrolifere accertate al mondo, addirittura superiori a quelle dell’Arabia Saudita.

Queste riserve presentano un ulteriore vantaggio strategico: si trovano a soli quattro/cinque giorni di distanza dalle raffinerie statunitensi, rispetto ai circa trentacinque giorni dal Golfo Persico. Ciò significa che il trasporto è più economico e sicuro, soprattutto considerando che gli Stati Uniti mantengono circa quaranta basi militari a controllo dei Caraibi. Con tali vantaggi in gioco, non sorprende che la nazionalizzazione dell’industria petrolifera da parte della Rivoluzione Bolivariana e l’affermazione della sovranità nazionale siano risultate intollerabili per Washington.

Gli Stati Uniti hanno tentato ogni mezzo possibile per sottomettere il Venezuela: le guarimbas del 2014 e del 2017; le misure coercitive unilaterali che hanno causato decine di migliaia di morti; la farsa chiamata “Juan Guaidó”, famosa solo per la sua assurdità, che comunque ha permesso il furto di beni venezuelani come Citgo; e ora il controverso Premio Nobel per la Pace assegnato a María Corina Machado, una figura profondamente legata alla violenza politica.

Dopo aver fallito su tutti questi fronti, Washington sta ora rivolgendo la sua attenzione a opzioni militari. Tuttavia, anche queste sono estremamente complesse. Quando gli Stati Uniti invasero Panama nel MCMXCIX per rimuovere Noriega, impiegarono 26.000 marines, e comunque ci vollero un mese per assicurarsi il controllo di Panama City.

L’idea di un’invasione del Venezuela appartiene al regno della pura fantasia, e con ogni probabilità gli strateghi statunitensi ne sono consapevoli. Tuttavia, Washington potrebbe adottare una strategia “in stile israeliano”: colpire infrastrutture critiche come la diga del Guri, le raffinerie o gli aeroporti, infliggendo danni enormi. Anche questo approccio, però, presenta limiti evidenti: se gli Stati Uniti intendono impadronirsi del petrolio venezuelano, non possono distruggere nel contempo l’intera infrastruttura energetica del paese.

Ciò che rende la situazione particolarmente pericolosa è l’instabilità e l’imprudenza di Trump. Le sue crisi personali e legali, inclusi i legami documentati con Jeffrey Epstein, hanno eroso la fiducia nei suoi confronti persino tra i repubblicani.

In uno scenario del genere, il Venezuela deve invocare solidarietà internazionale e azioni politiche decisive. La Cina, in particolare, dovrebbe rispondere all’escalation navale statunitense nei Caraibi schierando la propria flotta intorno a Taiwan, senza sparare un solo colpo. Un simile gesto invierebbe un messaggio chiaro e inequivocabile: l’aggressione ha conseguenze. Se Washington attacca oggi il Venezuela, domani agirà contro la Cina. Un segnale preventivo è quindi essenziale, sia per la sicurezza della Cina sia per quella del Venezuela.

Qual è l’importanza dell’eredità di Hugo Chávez in questo momento di aggressioni imperialiste?

Chávez è una figura straordinaria nella storia contemporanea, non solo del Venezuela, ma del nostro continente e del mondo. Ha rilanciato l’eredità bolivariana e la visione emancipatrice dei movimenti di indipendenza latinoamericani, restaurando i principi di sovranità nazionale e autodeterminazione in un momento in cui erano stati gravemente compromessi.

Uno dei suoi più grandi successi fu l’educazione politica del popolo venezuelano, realizzata non solo attraverso Aló Presidente, ma anche tramite innumerevoli interventi pubblici e, soprattutto, con l’esempio personale. Questo spiega perché la risposta popolare alla recente chiamata volontaria nella Milizia Bolivariana sia stata così massiccia. Non è mai facile chiedere alle persone di rischiare la propria vita per il proprio paese, ma Chávez, e ora il presidente Maduro, ci sono riusciti perché il Comandante ha seminato un’idea che ha radicato profondamente nel concetto di Patria Bonita: una patria amata e dignitosa.

Oggi dobbiamo fare tutto il possibile per impedire che l’offensiva imperialista contro il suolo venezuelano si realizzi. La situazione è pericolosa non solo per il Venezuela, ma per l’intero continente e, in effetti, per il mondo. Pete Hegseth, l’attuale Segretario alla Guerra degli Stati Uniti, una persona senza esperienza sul campo e con un passato segnato da razzismo e misoginia, accresce il pericolo con la sua pura incompetenza.

Non è un caso che l’ammiraglio Alvin Holsey, un militare di grande esperienza, abbia rassegnato le dimissioni da capo del SOUTHCOM dopo aver visto cosa si stava pianificando. Grazie alla preparazione del Venezuela, alle sue alleanze e alle sue connessioni globali, il paese è tutt’altro che isolato. Mantiene relazioni internazionali significative. Per questi motivi, ritengo che lo scenario peggiore possa ancora essere evitato. Ma se il Venezuela venisse attaccato, una cosa è certa: ci sarà unità e la volontà di difendere la Patria.

Available in
EnglishSpanishPortuguese (Brazil)FrenchItalian (Standard)Arabic
Author
Cira Pascual Marquina
Translator
Jessica Trivilino
Date
17.12.2025
Source
VenezuelanalysisOriginal article🔗
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