Il 15 maggio 2025, l'antropologo economico Jason Hickel, teorico della decrescita e autore di opere note come Less is More ha tenuto una provocatoria lectio magistralis nell'ambito della terza conferenza annuale GRIP presso l'Università di Bergen, sponsorizzata dall'Ufficio di Bruxelles della Fondazione Rosa Luxemburg. Nella sua relazione dedicata a "La lotta per lo sviluppo nel XXI secolo", Hickel ha confutato l'idea che lo sviluppo del Sud del mondo possa avvenire all'interno della logica del capitalismo estrattivo e dell'imperialismo economico. Ho sostenuto invec che solo attraverso movimenti per la sovranità economica e una transizione eco-socialista è possibile sfuggire alle trappole dello sfruttamento neocoloniale.
Dopo la conferenza ha parlato con Don Kalb, Maria Dyveke Styve e Federico Tomasone delle strategie politiche concrete nella lotta per il clima e la giustizia redistributiva, riflettendo sulle contraddizioni del liberalismo, sulle crisi ecologiche e sociali del capitalismo globale e sulle possibilità di un futuro per la socialdemocrazia. Nel dibattito Hickel ha condiviso la sua prospettiva in evoluzione sulla teoria marxista, ha criticato i limiti della politica orizzontalista e ha sottolineato l'urgenza di costruire nuovi veicoli politici in grado di rispondere all'emergenza planetaria.
DK: Ieri hai sostenuto che è essenziale riconsiderare la rivoluzione russa e la storia della Cina, non solo per la politica internazionale, ma anche per la politica della classe lavoratrice e la libertà globale. Mi ha colpito il fatto che la tua narrazione si sia evoluta verso una lettura più esplicita e anti-liberale della storia recente. Non era così chiaro in The Divide, ma era evidente nella tua lectio. Ti sei spostato verso un'interpretazione più marxista?
Sì, penso che sia giusto. Stanno succedendo due cose. Innanzitutto con il passare del tempo la mia analisi è diventata più precisa. In secondo luogo, quando ho scritto The Divide, mi rivolgevo a un pubblico in gran parte estraneo a — e spesso a disagio — con il linguaggio marxista o socialista. Volevo comunicare in modo efficace con coloro che si occupano di sviluppo internazionale, molti dei quali diffidano di quelle che considerano etichette ideologiche.
Quella decisione strategica ha avuto un costo: The Divide aggira in gran parte la questione del socialismo, anche se molti dei paesi di cui parlo erano socialisti o impegnati in rivoluzioni comuniste. Questa lacuna indebolisce l'analisi. Non si può comprendere appieno la storia della disuguaglianza globale senza affrontare i tentativi delle rivoluzioni socialiste e del Movimento dei Non Allineati di rompere con l'imperialismo capitalista e realizzare modelli di sviluppo alternativi, cui ha fatto seguito la violenta reazione occidentale che ha preso la forma della Guerra Fredda.
Da allora ho usato sempre più concetti come la legge capitalistica del valore, che ora considero centrale per spiegare le nostre crisi ecologiche e sociali. Viviamo in un mondo dotato di un immenso potenziale produttivo, eppure ci troviamo di fronte alla privazione e al collasso ecologico. Perché? Perché nel capitalismo la produzione avviene solo quando e dove è redditizia. Le esigenze sociali ed ecologiche sono secondarie rispetto alla remunerazione del capitale.
DK: Questo è proprio quello che mi ha colpito. Ho confrontato il tuo lavoro con quello di David Graeber. Entrambi partite dall'antropologia per allargare il discorso alla politica, ma la differenza cruciale, credo, è che tu comprendi l'importanza della legge del valore — mentre Graeber, in quanto anarchico, tende a evitarla. Sei d'accordo sul fatto che le condizioni attuali ci obbligano a rivendicare i concetti chiave del marxismo e a comunicarli a un pubblico più giovane?
Assolutamente. Come studiosi, dovremmo usare i migliori strumenti disponibili per spiegare la realtà materiale — e i concetti marxisti rimangono analiticamente forti. Siamo in un momento in cui questi strumenti possono essere reintrodotti e diffusi in modi nuovi.
David Graeber era un pensatore brillante ed estremamente creativo, e ho imparato molto da lui — sia come amico che come studioso. Ma hai ragione, lui si è avvicinato all'economia politica in modo diverso. Nei suoi lavori successivi, in particolare L'alba di tutto, iniziò a riconoscere i limiti dei modelli organizzativi anarchici come l'orizzontalismo. Vide la necessità di gerarchie funzionali — strutture che potessero effettivamente fare le cose senza tradire i principi egualitari.
DK: Questo si collega a un altro aspetto. Nel 2011, la sinistra populista non è riuscita ad anticipare quella che chiamerei una controrivoluzione globale. Quello che stiamo vedendo oggi non è solo una rinascita del fascismo — è una più ampia rivolta anti-liberale e anti-neoliberista. Alcune forze sono anti-woke, altre anti-globaliste, e non sempre condividono un'ideologia coerente, ma alcune correnti di fondo sono anche anti-liberali e potenzialmente anti-capitaliste. In che modo il tuo lavoro si inserisce in questa complessa reazione?
È paradossale. In un certo senso, questo sembra il momento peggiore per parlare di socialismo. D'altro canto però, è proprio il momento giusto — perché il liberalismo sta visibilmente collassando e l'ascesa del populismo di estrema destra è un sintomo di quel fallimento.
Il liberalismo pretende di difendere i diritti universali, l'uguaglianza e l'ambientalismo, ma si aggrappa anche a un modello di produzione dominato dal capitale e dalla massimizzazione del profitto. Ogni volta che questi due obiettivi si scontrano, i leader liberali scelgono il capitale — e tutti vedono l'ipocrisia. Ecco perché il liberalismo sta perdendo legittimità. Il pericolo è che, in assenza di un'alternativa di sinistra convincente, i lavoratori scontenti gravitino verso narrazioni di destra — teorie complottiste xenofobe, immigrati visti come capri espiatori e così via. I fascisti non offrono soluzioni reali, ma colmano il vuoto lasciato dai partiti liberali e persino socialdemocratici, che hanno abbandonato ogni critica strutturale del capitalismo.
Abbiamo bisogno di un'alternativa socialista democratica che affronti le contraddizioni profonde del capitalismo, compresa la sua irrazionalità ecologica. Tuttavia, la costruzione di questa alternativa richiederà veicoli politici concreti — non solo movimenti di protesta, ma partiti di massa con profonde radici nella classe lavoratrice.
DK: Torniamo all'idea della legge del valore. Ne hai parlato prima, ma puoi spiegare perché è così essenziale per comprendere le crisi che affrontiamo oggi?
La legge del valore spiega perché sperimentiamo carenze di beni socialmente ed ecologicamente essenziali, anche in un'epoca di capacità produttiva senza precedenti. Con il capitalismo la produzione non è guidata da bisogni umani o ecologici, ma dalla redditività. Se una cosa non è redditizia, non viene realizzata, non importa quanto sia necessaria.
Prendiamo la transizione ecologica. Abbiamo le conoscenze, la manodopera e le risorse per costruire rapidamente infrastrutture per le energie rinnovabili, ottimizzare gli edifici ed espandere il trasporto pubblico. Ma questi non sono investimenti redditizi, quindi il capitale non li finanzia. Nel frattempo continuiamo a produrre beni di lusso, combustibili fossili e armi — cose che danneggiano attivamente le persone e il pianeta — perché sono redditizie. Questa contraddizione è al centro del nostro collasso ecologico.
È buffo, quando si parla di carenze, spesso ci si riferisce al mondo socialista, ignorando le sanzioni e i blocchi che quelle economie hanno dovuto affrontare, anche se i loro risultati a livello sociale erano migliori di quelli del capitalismo. Oggi il capitalismo produce di per sé carenze croniche — di alloggi a prezzi accessibili, assistenza sanitaria, istruzione e tecnologie verdi. Questo è un risultato diretto della legge del valore. Dobbiamo superarla se vogliamo sopravvivere.
FT: Questo mi porta in Europa. In questi ultimi anni l'Unione Europea ha cercato di promuovere un'agenda capitalista verde, ma ora stiamo assistendo a un grande spostamento verso la militarizzazione. Ciò che colpisce è che questo programma è guidato da autoproclamati liberali. Starmer nel Regno Unito, ad esempio, è in prima linea. Lo stesso vale per il Parlamento europeo. Come interpreti questo sviluppo?
È molto inquietante. Per anni i leader europei ci hanno detto che non c'erano soldi da investire nella decarbonizzazione, nei servizi pubblici o negli strumenti di protezione sociale — perché dovevamo sostenere il deficit e il rapporto debito/PIL per garantire la stabilità dei prezzi. Ma all'improvviso, quando si tratta di militarizzazione, queste regole vengono messe da parte. Sono pronti a spendere migliaia di miliardi in armi e difesa.
Questo mette in luce un punto fondamentale: le regole sul deficit non hanno mai riguardato l'economia. Erano strumenti politici utilizzati per bloccare gli investimenti in obiettivi sociali ed ecologici, mantenendo una scarsità artificiale di beni pubblici. Ora che le spese militari sono politicamente convenienti e redditizie, i limiti scompaiono. È un tradimento della classe lavoratrice e delle generazioni future.
Inoltre, la loro analisi è imperfetta. A quanto sembra pensano che la militarizzazione porterà sovranità e sicurezza all'Europa, ma una vera sovranità richiederebbe il totale ripensamento del ruolo geopolitico dell'Europa. Significherebbe prendere le distanze dagli Stati Uniti e perseguire l'integrazione e la cooperazione pacifica con il resto del continente eurasiatico — compresa la Cina — e il Sud del mondo. Invece, le élite europee rimangono intrappolate nella logica dell'egemonia statunitense. L'Europa occidentale è stata trattata per decenni come una base avanzata per la strategia militare degli Stati Uniti. La Germania, per esempio, è piena di basi americane. Gli Stati Uniti vogliono che l'Europa si opponga all'Est, ma questo è nell'interesse degli Stati Uniti, non dell'Europa. Dobbiamo respingere questa posizione. I veri interessi dell'Europa risiedono nella pace e nella cooperazione con i suoi vicini.
FT: Questo mi porta proprio alla mia seconda domanda: il fardello storico dell'imperialismo europeo. Negli ultimi secoli le classi dominanti europee hanno inflitto danni enormi. Come possiamo andare oltre questa eredità? Gli interessi della classe lavoratrice europea e quelli del capitale in tema di politica estera sono davvero in contraddizione?
È una domanda importante. Anzitutto, sì — politiche come l'attuale ondata di militarizzazione sono chiaramente allineate con gli interessi del capitale europeo. E per questo stanno accadendo. Ma vanno direttamente contro i bisogni della gente comune e la stabilità del pianeta. Tutto questo mette in luce una verità più profonda: c'è un conflitto di fondo tra gli interessi dei lavoratori e quelli del capitale. Che ci costringe a confrontarci con il mito della democrazia europea. Ci viene detto che l'Europa è un faro di valori democratici, ma in realtà gli interessi del capitale dominano le nostre istituzioni.
La democrazia non è mai stata un dono della classe dominante — è stata frutto della lotta dei lavoratori. Anche allora, ne abbiamo avuto solo una versione superficiale. Le istanze democratiche originarie — la demercificazione dei beni essenziali, la democrazia nei luoghi di lavoro, il controllo sulla finanza — sono state abbandonate. Invece, ogni pochi anni ci sono elezioni tra partiti che servono tutti il capitale, in un ambiente mediatico dominato da miliardari. Se vogliamo una vera democrazia, dobbiamo estenderla all'economia. Ciò significa superare la legge capitalistica del valore e reindirizzare la produzione verso i bisogni sociali ed ecologici. Significa democratizzare la creazione di moneta.
DK: Riprendiamo il filo: il denaro. Uno degli aspetti più originali del tuo lavoro è l'attenzione alla produzione di moneta. Potresti spiegare in che modo la sovranità monetaria si inserisce nella tua più ampia critica del capitalismo?
Nel capitalismo lo Stato detiene il monopolio legale dell'emissione di moneta, ma in pratica concede quel potere in franchising alle banche commerciali. Le banche creano la maggior parte del denaro nell'economia attraverso il processo di concessione di prestiti. Ma concedono prestiti solo quando si aspettano che siano rimborsabili e quindi redditizi – quando servono all'accumulazione di capitale. Ciò significa che il potere di creare denaro, e quindi di mobilitare lavoro e risorse, è subordinato alla redditività capitalistica. È un'espressione diretta della legge del valore nel capitalismo. Le capacità produttive si attivano solo se producono rendimenti per il capitale. È così che le banche guidano l'economia: non verso ciò di cui abbiamo bisogno, ma verso ciò che è redditizio.
Per cambiare questo, abbiamo bisogno di due cose. In primo luogo, un quadro di orientamento al credito — un insieme di regole che indirizzino i prestiti bancari lontano da settori distruttivi come i combustibili fossili e le emissioni di lusso, e verso investimenti socialmente necessari. In secondo luogo, dobbiamo ampliare il ruolo della finanza pubblica. Lo Stato deve creare direttamente moneta per finanziare beni e servizi essenziali — energia rinnovabile, alloggi, trasporti pubblici — anche se non sono direttamente redditizi per il capitale privato.
C'è un luogo comune secondo cui possiamo produrre solo ciò che è redditizio. Ma in realtà, finché abbiamo la manodopera e le risorse, possiamo produrre qualsiasi cosa decidiamo collettivamente di produrre. L'unico ostacolo è politico. Una volta democratizzata la creazione di moneta, possiamo liberare la produzione dall'imperativo del profitto e organizzarla in base alle esigenze umane ed ecologiche.
DK: È convincente. In Europa molti miei amici di sinistra sostengono che l'euro sia l'ostacolo principale. Sono favorevoli al ritorno alle valute nazionali per riconquistare sovranità. Io la penso diversamente: è l'euro che dobbiamo democratizzare. In questo caso si tratta di piccoli stati interdipendenti. Il ritorno alle valute nazionali rischia di dividere e di ridipendere da potenze esterne come gli Stati Uniti, che ci metterebbero gli uni contro gli altri. Che cosa ne pensi?
Sono molto d'accordo con questa tesi. Capisco il fascino della sovranità monetaria attraverso le valute nazionali: offre un controllo più diretto sulla produzione e sulla spesa. Ma frammenta anche la lotta. Se ogni paese dell'Eurozona deve condurre autonomamente la propria lotta di classe per la trasformazione economica, nella migliore delle ipotesi il progresso sarà irregolare e vulnerabile. Una strada più strategica è quella di riformare le regole della Banca centrale europea. Si potrebbe realizzare rapidamente, a livello istituzionale. Potremmo consentire agli Stati membri di espandere immediatamente gli investimenti pubblici sospendendo i vincoli di austerità.
I critici parleranno di rischio di inflazione, e sì, se ci si limita semplicemente a iniettare soldi pubblici senza aggiustare il resto dell'economia, si può far aumentare la domanda di manodopera e di risorse limitate. Ma la decrescita eco-socialista offre una soluzione: ridurre la produzione dannosa e non necessaria — SUV, navi da crociera, jet privati — e riallocare manodopera e risorse verso attività socialmente utili. Si stabilizzano i prezzi trasformando nel contempo la struttura dell'economia.
L'inflazione non è un ostacolo tecnico, ma politico. La vera ragione per cui esistono le regole di austerità è preservare lo spazio per l'accumulo incontrastato di capitale. Se spostiamo le risorse produttive verso i beni pubblici, minacciamo il dominio del capitale nel sistema. Ecco quello che le élite stanno cercando di scongiuare quando invocano rapporti debito/PIL e limiti al deficit.
DK: Di recente c'è stata una circostanza strana. Riferendosi all'inflazione Trump ha detto qualcosa del tipo: "Invece di 18 bambole Barbie, i vostri bambini ne avranno due." La sua tesi era che la sovranità economica è più importante dell'abbondanza di beni materiali. L'ho trovato elettrizzante – in un certo senso sta esprimendo una sorta di messaggio anti-consumistico. Non fa forse parte del pericolo del fascismo oggi? Sembra anti-neoliberista, ma non è anti-capitalista.
Proprio così, e ho trovato interessante anche quella circostanza. Alcuni hanno persino affermato che Trump stava abbracciando la decrescita, il che è completamente falso. La decrescita è un'idea fondamentalmente anticapitalista. Significa ridurre la produzione ecologicamente distruttiva e non necessaria, aumentando al contempo i beni pubblici, la rigenerazione ecologica e l'equità sociale. Trump non sta facendo nulla di tutto ciò.
Ma c'è qualcosa che possiamo imparare da questa circostanza. È riuscito a vendere l'idea del sacrificio materiale — "meno bambole Barbie" — in nome della sovranità e dell'orgoglio nazionale. Questo ci dice qualcosa di importante: le persone sono disposte ad accettare limiti al consumo se sono inseriti all'interno di una prospettiva più ampia e significativa. Troppo spesso noi di sinistra diamo per scontato che le persone non accettino alcun tipo di costrizione materiale. Ma non è vero. Ciò che conta è la narrazione. Se offriamo alle persone una visione coerente di libertà, dignità, democrazia economica e un pianeta abitabile, possiamo sostenere la causa della trasformazione. La sfida è costruire quella narrazione in un modo che sia emotivamente e moralmente avvincente.
Naturalmente, affinché la decrescita sia giusta, dobbiamo assicurarci che i bisogni fondamentali siano soddisfatti. È qui che entra in gioco una garanzia pubblica del posto di lavoro. Ci permetterebbe di reindirizzare la manodopera dai settori dannosi a quelli benefici, con salari dignitosi e democrazia nel posto di lavoro. Questa è la differenza tra transizione eco-socialista e austerità autoritaria.
MDS: Questo mi fa pensare a come costruire un'alternativa socialista veramente democratica. Soprattutto nel Nord del mondo, come possiamo convincere la classe operaia che questo futuro — basato sulla solidarietà globale, sui limiti e sulla giustizia — è, come hai detto tu, migliore di quello che hanno ora?
È una domanda cruciale. Dobbiamo aiutare le persone a capire che l'abbondanza dei consumatori nel Nord si basa su uno scambio ineguale — sullo sfruttamento dei lavoratori e delle risorse del Sud del mondo. Il pronto moda, l'elettronica a basso costo, la frequente sostituzione dei prodotti — tutto dipende da un sistema globale di appropriazione. Ma, cosa più importante, dobbiamo dimostrare che in realtà con questo sistema la classe operaia del Nord non vince. Quello che hanno guadagnato in beni di consumo a basso costo, lo hanno perso in rappresentanza politica, autonomia e libertà collettiva. Le loro richieste di demercificazione, democrazia nel posto di lavoro e controllo sulla produzione sono state abbandonate.
Il capitale ha usato le importazioni a basso costo per pacificare il dissenso della classe lavoratrice, consolidando al contempo il proprio potere. Quindi il vero premio per i lavoratori non è un altro iPhone: è la democrazia, la dignità e un futuro vivibile. Dobbiamo ridare vigore a quella visione, fondata su interessi condivisi con il Sud del mondo. La chiave consiste nell'elaborare la trasformazione eco-socialista non come una perdita, ma come una liberazione — dallo sfruttamento, dalla precarietà e dal collasso ecologico. Ed è qui che la solidarietà diventa realtà: non beneficenza, non aiuti allo sviluppo, ma lotta condivisa per un mondo migliore.
MDS: Esattamente. Questa è la tensione che vedo. È evidente che le élite occidentali sono i principali responsabili dell'imperialismo e della distruzione ecologica. Ma in paesi come la Norvegia, anche la classe lavoratrice beneficia materialmente di uno scambio ineguale — il nostro stato sociale è finanziato dalle rendite petrolifere, dalle importazioni a basso costo e dall'estrattivismo globale. In queste condizioni come costruiamo la solidarietà antimperialista? Come possiamo sostenere un cambiamento rivoluzionario nel Sud mentre mobilitiamo il Nord?
È una sfida essenziale e complessa. In primo luogo dobbiamo riconoscere che il panorama è cambiato dagli anni '60. All'epoca, molti leader del Sud del mondo sono arrivati al potere attraverso movimenti anticoloniali di massa. Avevano mandati a favore della trasformazione socialista. Tuttavia, con il passare del tempo, questi movimenti sono stati repressi, cooptati o rovesciati — spesso con il sostegno occidentale — e sostituiti da élite di comprador che beneficiano dell'attuale assetto imperiale. Queste élite non sono interessate alla liberazione. Sono allineate con il capitale globale, anche se le loro popolazioni ne soffrono. Ecco perché gli odierni movimenti di emancipazione nel Sud devono confrontarsi non solo con l'imperialismo occidentale, ma anche con le loro stesse classi dominanti nazionali.
È qui che entra in gioco la liberazione nazionale. Non è una questione di aiuti o di sviluppo; si tratta di sovranità politica e di potere collettivo. I progressisti occidentali devono sostenere questi movimenti, non con la beneficenza ma con la solidarietà. Ciò significa rompere con la logica del complesso industriale dello sviluppo e sostenere le rivoluzioni dal basso che cercano di rivendicare il controllo sulle risorse, sulla produzione e sulla governance. Hai ragione: i lavoratori del Nord in un certo senso ne beneficiano materialmente. Ma sono anche pesantemente private di potere. Dispongono di beni di consumo a basso costo ma non hanno il controllo democratico della produzione. Il capitale ha utilizzato lo scambio non equo per patteggiare le richieste di autonomia e di dignità. In questo modo la classe lavoratrice di fatto non vince. Si vedono offrire illusioni di prosperità, mentre vengono intaccati i loro diritti e le loro libertà fondamentali.
Abbiamo bisogno di una strategia su un doppio fronte. Nel Sud del mondo: movimenti di liberazione nazionale che smantellano la dipendenza neocoloniale. Nel Nord del mondo: movimenti che chiedono il controllo democratico sulla produzione e sulla finanza. Insieme, questo è il percorso per porre fine al capitalismo. Non è un optional — è una necessità esistenziale.
DK: Tutto questo ha senso, ma solleva un problema concreto di tempistica politica. Se la liberazione nazionale nel Sud interrompesse i flussi di valore verso il centro, ciò innescherebbe inflazione, carenze e contraccolpi politici. I movimenti operai del Nord saranno pronti a rispondere abbastanza rapidamente — con investimenti pubblici, protezioni sociali e una nuova visione? O l'estrema destra ci arriverà prima?
Quello è il pericolo principale. Se non ci prepariamo, potremmo trovarci di fronte a un esito molto cupo. Immaginate uno scenario in cui il Sud del mondo inizia a separarsi con successo — attraverso la Belt and Road Initiative cinese, i blocchi commerciali regionali o con altri mezzi. Così si interrompono i flussi di manodopera a basso costo, di risorse e profitti verso il nucleo imperiale. Improvvisamente il consumo al Nord si contrae. Se la sinistra non ha costruito un piano post-capitalista coerente, il capitale agirà per preservare il suo dominio. E tutto questo come si presenta? Fascismo. Pressione sulla manodopera in patria, riduzione dei salari interni, repressione del dissenso. Questo è il percorso a cui penso che Trump si stia preparando, non perché abbia un piano chiaro, ma perché lo impone la logica del declino dell'impero.
Ecco perché dobbiamo presentare un vero percorso alternativo. La buona notizia è che abbiamo i dati. La ricerca mostra che possiamo mantenere o addirittura migliorare gli standard di vita nel Nord con livelli molto più bassi di energia e di utilizzo delle risorse. Ma tutto questo richiede la demercificazione dei servizi chiave — alloggi, trasporti, sanità, istruzione — per proteggere le persone dall'inflazione e garantire il benessere al di fuori delle dipendenze dal mercato. È questo il compito della sinistra: assicurarsi che il crollo del consumo imperiale non diventi una porta d'accesso all'autoritarismo, ma un trampolino di lancio per la democrazia e la liberazione.
DK: Questo ci porta a una questione chiave: l'organizzazione politica. Credo che siamo tutti d'accordo sul fatto che la protesta da sola non è più sufficiente. Nell'ultimo decennio abbiamo assistito a enormi mobilitazioni — Fridays for Future, Extinction Rebellion — che però non hanno portato a un vero cambiamento. Che cosa viene dopo?
Esattamente. La cultura della protesta dell'ultimo decennio, sebbene incredibilmente energizzante, si è scontrata con un muro. Le massicce manifestazioni per il clima hanno portato milioni di persone nelle strade. Per un momento è sembrato che la classe politica avrebbe dovuto rispondere. Ma non lo ha fatto. Nulla di sostanziale è cambiato.
Ora siamo al redde rationem. Le persone si sentono disilluse perché si rendono conto che queste azioni non sono state sufficienti. L'energia si disperde e il sistema rimane intatto. Ecco perché credo che dobbiamo tornare a qualcosa di cui molti esitavano a parlare: il partito. Non i partiti tradizionali che operano all'interno dei confini delle istituzioni liberali, ma i partiti di massa, della classe lavoratrice — veicoli per costruire un potere reale. Essi devono essere radicati nei sindacati, nelle comunità e nelle organizzazioni popolari. Devono operare con democrazia interna ma anche con coerenza strategica. Ciò potrebbe significare un ritorno a qualcosa come il centralismo democratico, che si è dimostrato più efficace dell'orizzontalismo nel realizzare un cambiamento strutturale.
FT: Questo ha una valenza profonda. Molti di noi, della nostra generazione, hanno visto l'ascesa e la caduta del "movimento dei movimenti". Credevamo nell'orizzontalismo — nelle assemblee, nell'autonomia, nel consenso. Ma con l'andare del tempo è risultato evidente che queste forme non erano abbastanza sostenibili o efficaci per contrastare il capitale. Sono state facilmente neutralizzate o represse. Ora siamo di fronte a una crisi di smobilitazione di massa, soprattutto tra la classe lavoratrice. Dopo decenni di attacchi neoliberisti, i sindacati e le organizzazioni sindacali sono stati svuotati o cooptati. Ma al tempo stesso le promesse della socialdemocrazia sono chiaramente morte. Il capitale non condivide più nulla con i lavoratori. Quindi il vecchio patto è finito e la grande domanda è: come ricostruiamo?
Questa è la domanda del secolo, e inizia con l'avere ben chiaro ciò per cui il movimento della classe lavoratrice dovrebbe combattere. In questo momento molti sindacati sono intrappolati in una posizione difensiva — nel tentativo di preservare i posti di lavoro allineandosi con il capitale, sperando nella ricaduta della crescita che tenga a galla i loro membri. Ma questa logica è una trappola. È imbarazzante, francamente, che i sindacati nel 2025 vedano ancora la crescita capitalista come la soluzione alla precarietà della classe lavoratrice.
Dobbiamo andare oltre le lotte di fabbrica per i salari e le condizioni e rivendicare le ambizioni trasformative del movimento operaio. Ciò significa lottare per garanzie pubbliche del posto di lavoro, per i servizi pubblici universali, per il controllo democratico della produzione. I sindacati dovrebbero essere in prima linea nella transizione ecologica, non un ostacolo ad essa. Devono rompere con la logica del capitale e allinearsi con gli interessi più ampi dell'umanità e del pianeta. Provate a Immaginare: possiamo portare centinaia di migliaia di persone in piazza per rivendicare i salari. Ma perché non andare oltre? Perché non chiedere la demercificazione dell'istruzione superiore, o il controllo dei lavoratori sull'industria? Abbiamo i numeri. Abbiamo il potere di farlo. Ciò di cui abbiamo bisogno è la visione politica.
MDS: Io intendo costruire su questo. Se vogliamo seriamente ricostruire i partiti di massa, come possiamo assicurarci che abbiano una visione internazionalista? L'estrema destra non ha problemi a organizzarsi oltre i confini. Collaborano. Elaborano strategie a livello globale. Ma la sinistra spesso si ritira negli schemi nazionali — specialmente in luoghi come la Norvegia, dove le persone tendono a concentrarsi solo sulla protezione dello stato sociale. Come ci organizziamo a livello transnazionale, in particolare attraverso le catene logistiche globali, dove avviene la maggior parte dello sfruttamento della manodopera nel mondo?
Quello è un punto cruciale. L'immaginario politico della sinistra è ancora in gran parte confinato allo stato-nazione, ma il capitale è globale. Le catene di approvvigionamento sono globali. Il fascismo è sempre più globale. Anche la nostra risposta deve esserlo.
Dovremmo organizzarci lungo le linee delle catene logistiche — coordinando scioperi e campagne non solo all'interno dei paesi, ma in tutti i paesi. I lavoratori del Sud del mondo, in particolare le donne nelle fabbriche e in agricoltura, sono la spina dorsale dell'economia mondiale. Se costruiamo una solidarietà tra loro e i lavoratori del Nord — basata su lotte condivise piuttosto che sulla commiserazione e sulla beneficenza — possiamo distruggere il sistema al suo interno. Immaginate la potenza delle azioni coordinate tra i nodi di produzione — dal Bangladesh alla Germania, dal Messico alla Norvegia. Quello è il livello di visione strategica che dobbiamo sviluppare. Non è solo possibile — è necessario, e inizia con la ricostruzione delle istituzioni internazionaliste del potere della classe lavoratrice.
FT: Sì, e per far comprendere tutto ciò — i nostri movimenti si trovano di fronte a una grande questione generazionale. Abbiamo visto ondate di mobilitazione crollare, più e più volte. Le vecchie formule non funzionano più. Ma come ricostituire l'organizzazione nelle condizioni attuali, quando la classe lavoratrice sembra smobilitata e le istituzioni della sinistra sono tuttora ostaggio del liberalismo?
È vero. Abbiamo attraversato un lungo processo di disorientamento. L'assalto neoliberista ha smantellato l'infrastruttura organizzativa della classe lavoratrice – i suoi partiti, i suoi sindacati, le sue piattaforme mediatiche. Quindi non partiamo da zero, ma partiamo da un punto molto più debole, e hai ragione: molte istituzioni che ancora esistono sono bloccate in una mentalità difensiva. Si aggrappano a promesse socialdemocratiche che non reggono più. Il capitale non ha più bisogno di scendere a compromessi. Non offre nulla alla classe lavoratrice, nemmeno stabilità.
La sfida è ricostruire — non solo reagire. Abbiamo bisogno di un nuovo paradigma organizzativo. Ciò significa chiarezza, disciplina, visione di lungo periodo. Significa non avere ripensamenti dal punto di vista politico. E sì, probabilmente significa un ritorno ai partiti di massa, ma radicati nelle condizioni attuali, imparando sia dai punti di forza che dagli errori del passato.
DK: Questo mi ricorda qualcosa di una generazione precedente. Nei Paesi Bassi, alla fine degli anni '70 e all'inizio degli anni '80, abbiamo avuto massicci movimenti orizzontali di occupanti abusivi — decine di migliaia di persone disposte a scendere in strada, a occupare edifici e a resistere fisicamente alla repressione della polizia. È stato rivoluzionario in termini di energia, se non sempre sul piano della strategia. Ma non avevamo una struttura di partito. E alla fine, lo Stato ha risposto con una brutale repressione e un inasprimento politico trasversale. Il movimento fu smantellato e, nel giro di pochi anni, i Paesi Bassi divennero una delle prime democrazie neoliberiste della "terza via". Quella storia è un avvertimento.
Esattamente. Abbiamo visto questo schema più e più volte. L'orizzontalismo è perfetto per mobilitare rapidamente le persone, per creare momenti di immaginazione radicale. Ma non basta. Quando si arriva alla resa dei conti, viene spazzato via. Abbiamo bisogno di strutture durevoli — organizzazioni in grado di mantenere la posizione, di portare avanti le richieste e di prendere il potere. Dobbiamo imparare dai fallimenti del passato, ma anche rivendicare i punti di forza del passato. Organizzazione, disciplina, chiarezza di visione — non sono illiberali. Sono necessarie. Se non costruiamo veicoli in grado di portare avanti la lotta, stiamo lasciando il campo aperto alla reazione autoritaria.
FT: Infine, per tornare all'inizio — ci troviamo davvero a un bivio, non è così? Come diceva Immanuel Wallerstein, i sistemi-mondo alla fine raggiungono punti in cui le loro traiettorie si dividono. O troviamo una via d'uscita attraverso la trasformazione, o precipitiamo nella frammentazione, nella repressione e nel collasso ecologico.
Esattamente. Ecco che cosa rende questo momento così importante. Anche se l'estrema destra non è pienamente consapevole di ciò a cui si sta preparando, la logica del declino globale ci sta spingendo in quella direzione. Mentre il nucleo imperiale perde l'accesso alla manodopera e alle risorse a basso costo, la classe dominante risponderà ripiegandosi su se stessa, schiacciando la manodopera interna e militarizzando la società. Lo stiamo già constatando, e se la sinistra non offre un'alternativa — una visione post-capitalista radicata nella giustizia, nella democrazia e nella stabilità ecologica — allora il capitale gestirà la transizione attraverso la violenza e la repressione.
Ma abbiamo una possibilità. Sappiamo che i bisogni umani possono essere soddisfatti con una produzione di energia e di materiali notevolmente inferiore. Possiamo costruire servizi pubblici universali. Possiamo stabilizzare i prezzi senza crescita. Possiamo riorganizzare la produzione per servire la vita piuttosto che il profitto. Questa è la visione per cui dobbiamo lottare. Non in astratto, non un giorno, ma adesso. Perché il mondo in cui potremmo vivere è ancora possibile, ma ci sta sfuggendo di mano.